Aree interne, 7 punti per un autentico rilancio
Occorre spazializzare e territorializzare le politiche in base alle specificità dei contesti, superando la logica oppositiva rispetto alle città
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La crisi sanitaria ha evidenziato quanto la dimensione territoriale sia stata espulsa da tempo dalle policies del nostro Paese, per essere ridotta a mero spazio diagrammatico e astratto. Una afisicità delle cose che attraversa anche le filosofie dello smart o delle best practices replicabili, nell’idea che sia sufficiente attenersi a una procedura per risolvere le complessità della contemporaneità. Niente quanto l’emergenza sanitaria lombarda mostra l’urgenza di una reimmissione del territorio materico e concreto – fatto di abitanti e insediamenti specifici – dentro l’orizzonte delle politiche. L’astrazione dallo spazio fisico ha permesso quelle azioni di concentrazione (dell’eccellenza), separazione (dal territorio) e specializzazione (funzionale) che negli ultimi decenni sono state la cifra delle trasformazioni del Paese, che si trattasse delle cliniche lombarde o altro. Non è forse un caso che la crisi abbia colpito più duro proprio in quei territori intermedi – come la bergamasca – che sono stati i principali oggetti delle politiche settoriali.
Questa crescente consapevolezza non fa che rilanciare ulteriormente il tema delle aree interne e marginali, già oggetto in anni recenti di crescenti attenzioni. Dopo i primi giorni, abbiamo assistito a interventi di esperti che parlano di far “adottare” i borghi delle aree interne dalle città metropolitane, o che affermano che il futuro del paese è nei territori di margine e non più nelle aree urbanizzate. Al di là del diffuso wishful thinking che attraversa questi interventi – che raramente si pongono il tema del come, e soprattutto rispetto a quali orizzonti economici e sociali, limitandosi a un mondo d’immagini in fondo estetizzanti –, quello che colpisce sono gli immaginari sottesi a queste riflessioni, che sembrano sempre rimandare a una logica oppositiva e dicotomica dei territori, piuttosto che a un’idea cooperativa e della compresenza. Aut-aut invece che et-et. O la città, o la campagna-montagna. O i “centri”, o le “periferie”. O ancora le realtà metropolitane che “aiutano” le aree interne, come se queste fossero gusci vuoti, privi di comunità, progettualità, desideri, dotati solamente di patrimoni naturali e storici.
Eppure questi ultimi anni hanno mostrato come sovente la frontiera dell’innovazione venga a disporsi proprio lungo le linee di margine: progetti di rigenerazione a base culturale, cooperative di comunità, processi di reinsediamento. Certo, si tratta di sperimentazioni fragili tanto quanto i luoghi su cui insistono, ma dove la dimensione spaziale gioca un ruolo attivo e inedito, che dovrebbe essere osservato con attenzione proprio in virtù delle nuove aperture che può offrire, anche rispetto a contesti urbani sempre più bloccati. Purtroppo non è così. Già la stessa task force governativa per l’uscita dalla crisi – fatta essenzialmente di economisti, e priva di competenze in grado di spazializzare le cose – fa intravedere una volontà di proseguire secondo le linee di quel paradigma tecnico-soluzionista privo di spazio che ha guidato gli ultimi decenni. Eppure la spazializzazione, la territorializzazione delle politiche oggi rappresenta una priorità decisiva. Da qui la necessità di ribadire alcuni nodi per il post crisi.
1. Questa crisi mostra come le aree che hanno maggiore capacità di resistenza sono quelle dove buoni gradi di varietà e d’interdipendenza delle parti vengono a coniugarsi con specifiche caratteristiche ambientali. È evidente come le aree interne abbiamo degli atouts da giocare in questa partita. Ma questo significa ridefinire in termini radicali molte delle policies dedicate a questi territori negli ultimi decenni, quasi sempre incentrate sulla patrimonializzazione delle risorse locali e la loro valorizzazione turistica in fondo “urbanocentrica”. Bisogna rovesciare la visione: non a partire dai “centri” verso le “periferie”, ma a partire dai “margini” stessi. A muovere da un’idea centrale: che questi non devono essere luoghi del consumo (di natura, di tradizioni, ecc.), ma innanzitutto territori della produzione: di nuove culture, d’innovazioni sociali, di saperi e pratiche tecnorurali, di rinnovati modi di fare welfare e d’interagire con l’ambiente.
2. Tutto questo rischia però di rimanere una mera petizione di principio se non cambiano le culture e gli immaginari di riferimento. Paradossalmente, malgrado il suo incredibile mosaico paesaggistico, il nostro Paese non ha mai coltivato un’idea d’integrazione tra le sue parti. Serve una nuova visione “metro-montana”, fondata sull’interdipendenza e la cooperazione dei diversi sistemi territoriali.
3. La crisi ha anche evidenziato la fine di un certo modo di pensare il rapporto tra stato centrale e autonomie territoriali. Il disastro sanitario di alcune regioni è solo l’ultima cartina di tornasole dell’esaurirsi del ruolo propulsivo giocato dalle autonomie locali, oggi rovesciato in burocrazia e riproposizione delle medesime logiche dei poteri centrali. Occorre ripensare e rimodulare competenze, regole, fiscalità e norme in stretta relazione con le specifiche caratteristiche dei diversi territori.
4. Dobbiamo smettere di parlare solo di sanità e ospedali: dobbiamo parlare soprattutto di salute. Dobbiamo parlare di comunità educanti, e non solo di scuole. Dobbiamo parlare di diritto alla mobilità e comunicazione, e non solo di strade. Uscire dalla tassonomia degli oggetti precostituiti e dalla visione astratta delle soglie minime, e ricostruire modelli d’infrastrutturazione e di welfare – in linea con i portati dell’economia fondamentale – a partire dalle specificità dei territori. Innovando e contaminando.
5. La crisi mostra anche l’insensatezza di un dibattito sclerotizzato da anni sulla contrapposizione tra grandi e piccole opere infrastrutturali, dove il termine “infrastruttura” sembra essersi trasformato in una sorta di feticcio metafisico sganciato dalla realtà dei territori. Quello che questo paese necessita è un grande progetto di re-infrastrutturazione alle diverse scale che sappia tenere insieme dimensione logistica, ambientale e di welfare.
6. En passant, una parola sul come. Affinché le aree interne non diventino l’ennesima riproposizione alla via italiana allo sviluppo incentrata sull’edilizia. C’è ben poco da costruire ex novo. Semmai c’è un enorme capitale fisso territoriale, fatto di borghi e sistemazioni agricole e fluviali, di boschi e infrastrutture minori, che attende di essere reinterpretato, riusato, mantenuto, rinnovato.
7. Con chi e con cosa operare tutto questo? Oggi è possibile una grande alleanza tra le molte realtà che da tempo stanno lavorando in termini innovativi sulle aree interne del Paese; e bisogna avere la capacità, a valle degli insegnamenti di questa crisi, di saper ri-orientare filosofie e obiettivi della prossima programmazione europea.
Immagine di copertina: Attività di panificazione a Ostana (Cuneo), uno dei borghi italiani da alcuni anni oggetto di buone pratiche di recupero edilizio e rigenerazione sociale (foto di Laura Cantarella)
* Versione adattata del testo originale pubblicato su agcult.it
Antonio De Rossi, architetto e PhD, è ordinario di Progettazione architettonica, direttore dell’Istituto di Architettura Montana e coordinatore del Masterplan presso il Politecnico di Torino. È stato vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino. Ha al proprio attivo diverse realizzazioni architettoniche, e con i volumi La costruzione delle Alpi (Donzelli 2014 e 2016) ha vinto il premio Rigoni Stern. Recentemente ha curato il libro Riabitare l’Italia (Donzelli 2018).
Laura Mascino, architetta e PhD, ha insegnato Progettazione urbanistica presso il Politecnico di Milano. Lavora presso l’Istituzione Veneziana, dove si occupa di edilizia sociale e welfare. Sui temi della rigenerazione ha recentemente condotto i progetti per Teraferma – Parco agricolo del Veneziano, per DD Social a Venezia Dorsoduro e Crocevia Piave a Mestre. Ha vinto diversi concorsi e ha realizzato progetti in Italia, Gran Bretagna, Giappone.