Nuovi spazi del lavoro: fucine creative invece che alveari di attività solitarie
Secondo James Finestone e David Hirsch (ARUP) la pandemia ha portato una grande accelerazione in un settore dai cambiamenti molto lentie
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Published 4 ottobre 2021 – © riproduzione riservata
Sulla scia di una riflessione intorno ai cambiamenti negli spazi del lavoro nell’età industriale e post-industriale, Il Giornale dell’Architettura prosegue la propria inchiesta interpellando, attraverso quattro domande, progettisti noti per le loro realizzazioni nell’ambito. Dopo Enrico Frigerio (Frigerio Design Group), Andrea D’Antrassi (associate partner di MAD Architects), Paolo Bedogni e Massimo Roj (Progetto CMR), proseguiamo con James Finestone e David Hirsch (ARUP).
L’architettura d’impresa dell’ultimo mezzo secolo ha visto un cambiamento evidente nelle sue strutture e nei suoi principi ispirativi. Tra fenomeni effimeri, di stile e tendenza, il mutamento pare lo abbia causato il mercato, che ha portato alla riduzione degli spazi di stoccaggio e all’ampliamento degli spazi di commercializzazione, ricerca e progetto. Nella sua attività di progettista come si rapporta a questo mutamento epocale? Qual è il suo modello ispiratore?
David Hirsch: Arup possiede una grande esperienza progettuale nel campo della Science&Industry, dal settore manifatturiero a quello farmaceutico ai data center, spesso collaborando con il cliente per definire meglio il brief del progetto, le sue soluzioni tecnologiche e le funzionalità. Ed è vero che il mercato ha sempre provocato mutamenti nell’industria, chiedendo d’innovare e di rilanciare costantemente le proprie ambizioni in termini di qualità del prodotto, sostenibilità, digitalizzazione e tecnologia. Come Arup noi aspiriamo, e lo stiamo sperimentando in questo momento, a dare supporto a queste nuove ambizioni: il nostro modello pone il cliente al centro, cercando di fornire sostegno, efficienza e competenza al processo di progettazione. Il nostro approccio multidisciplinare aiuta i clienti ad analizzare i loro bisogni in modo olistico, e a condurre il progetto in un modo ancora più strategico. L’esperienza con Starbucks per il progetto di una torrefazione a Milano è un interessante esempio dell’evoluzione in corso nel settore, dove gli spazi del commercio e della produzione stanno diventando sempre più interconnessi: uno stabilimento è stato portato nel centro della città, dissolvendo i confini tra funzioni e usi, facendo sì che il processo di tostatura, confezionamento e vendita del caffè diventasse parte dell’esperienza del cliente. In questo mutamento, che sta influenzando anche altri settori industriali e prodotti, noi abbiamo compreso il ruolo chiave giocato dal progetto, e avuto conferma di quanto sia importante instaurare collaborazioni solide tra il cliente e i suoi consulenti progettuali.
Lo spazio del lavoro è anche lo spazio di una comunità – era la grande intuizione di Olivetti -, che si rapporta alla più ampia società e alla città, attraverso relazioni anch’esse in continuo cambiamento. Nella condanna di ogni ghettizzazione, la sola funzione per la quale la compartimentazione sembra ancora accettata resta proprio quella dei distretti industriali. Questa logica di pianificazione è ancora attuale? Nell’accelerazione causata della pandemia, l’incremento della virtualità influenzerà questi aspetti?
La pandemia ha completamente stravolto un modello consolidato e uno stato d’animo, e noi tutti stiamo ora tentando d’immaginare come tale evento estremo possa influenzare il futuro degli uffici, e il modo di lavorare. Io credo che forse dovremmo orientare diversamente la domanda, e chiedere a noi stessi che cosa bisogna trarre da questa esperienza per pianificare meglio le nostre città, così come gli spazi del lavoro, e migliorare la nostra qualità della vita. In questi giorni possiamo osservare come il lavoro, soprattutto le attività di servizio più che quelle legate alla produzione, può svilupparsi in un modo molto più frammentato, in cui le persone sono isolate fisicamente e connesse virtualmente. Da un’altra parte, però, noi continuiamo a credere – e dobbiamo incoraggiarle – nelle interazioni sociali dirette come valori umani, e come grande opportunità per uno scambio di conoscenze informale e riuscito. I distretti industriali continuano a esistere e probabilmente continueranno a resistere finché necessiteranno di specifici spazi fisici, di prossimità alle risorse energetiche, di accessibilità e di reti. Le attività legate alla scienza e al settore farmaceutico continueranno a cercare connessioni con laboratori e ospedali e, possibilmente, relazioni dirette con le università e i centri di ricerca. Cosa sta certamente mutando è la distinzione tra funzioni e usi: durante l’ultimo anno abbiamo visto quanto velocemente i nostri appartamenti siano stati costretti a trasformarsi in uffici, aule scolastiche, palestre, e probabilmente dovremo iniziare a pensare in questa direzione. Gli edifici, anche se fisicamente definiti, possiedono spesso una grande capacità di essere trasformati e adattati a nuovi usi e funzioni, e la pianificazione urbana dovrebbe essere capace di far proprio tale trend, immaginando una città molto più flessibile.
Il progetto degli spazi del lavoro pare improntato sempre più all’informalità, all’orizzontalità, conducendo, nei casi migliori, a una qualità ugualmente alta tra gli spazi dei dirigenti e quelli degli impiegati, tanto negli uffici quanto nei servizi garantiti. Secondo la sua esperienza, si tratta di vincolare all’affezione oppure di favorire la partecipazione? Le è mai capitato che questa partecipazione dell’intera comunità di produzione partisse già in fase di progetto?
James Finestone: Negli ultimi 50 anni, e specialmente negli ultimi due decenni, abbiamo assistito al passaggio dall’ufficio cellulare – che rappresentava un’organizzazione gerarchica più che altro verticale, caratterizzata dal falso prestigio dell’ufficio ad angolo – ad ambienti e stili molto più aperti e flessibili. Nei settori creativi e in quelli del terziario, le ragioni dietro tale evoluzione sono molte, e includono cambiamenti negli stili di gestione e negli assetti organizzativi, la valorizzazione di creatività e collaborazione e le aspettative delle nuove generazioni. A ogni modo, ciò cui abbiamo assistito nell’ultimo anno è a dir poco una scossa sismica per un ambiente che stava cambiando lentamente. Il futuro è arrivato prima di quanto previsto. Nessuno ha tutte le risposte ma ci sono tante sperimentazioni in corso. Assisteremo a un importante passaggio degli spazi del lavoro a nuovi centri di collaborazione e di confronto creativo, piuttosto che ad alveari di attività solitarie. Vedremo gli spazi del lavoro esprimere la loro flessibilità e apertura, gestiti sempre più digitalmente nella loro conformazione spaziale, con una tolleranza e un’aspettativa completamente differenti per la possibilità di lavorare in parte da casa, in parte dagli uffici e da altri spazi. Molte attività potranno funzionare meglio con più personale operante in meno spazio. L’impatto di ciò nel mercato immobiliare resta ancora da vedere, ma io mi aspetto che sarà drammatico. In Arup stiamo adottando un approccio partecipativo, per il quale poniamo a tutti i nostri 15.000 dipendenti domande molto precise su come immaginano il loro spazio del lavoro nel futuro, e su come bilancerebbero lavoro e luogo. Ne stiamo traendo molti insegnamenti su come poter cambiare i nostri uffici per renderli centri flessibili e dinamici di attività creative.
L’ultima curiosità riguarda gli studi d’architettura come spazio d’impresa. Democrazia, flessibilità, integrazione, partecipazione sono infatti presupposti che si richiedono ai progetti. Valgono, però, anche per i progettisti? In altri termini, gli studi d’architettura – nella doppia accezione di gruppo e di spazio – sono luoghi di comunità e di equo compenso? I progetti di nuovi spazi per il lavoro sorgono in luoghi conformi ai principi che dovrebbero trasmettere e trasporre in architettura?
Gli studi di architettura rappresentano una tipologia affascinante da studiare in questo periodo di crisi e di cambiamento. Da una parte abbiamo dato risposta alle trasformazioni di cui s’è detto, provando che possiamo fare quasi tutto in un modo flessibile, interconnesso e da remoto; dall’altra parte, però, ci sono alcuni aspetti della componente creativa del fare architettura che sono difficili da sostituire completamente con azioni a distanza e connessioni digitali. In definitiva, abbiamo bisogno di persone che agiscano insieme in spazi fisici per progettare spazi per altre persone. I concetti, menzionati nella domanda, di democrazia, flessibilità e partecipazione, tra gli altri, possono realmente essere veramente dibattuti, esplorati e risolti solo con una comunicazione almeno in parte diretta.
Chi è David Hirsch
È un architetto specializzato nella progettazione integrata. In qualità di associato, guida la sede milanese di ARUP fornendo servizi di architettura per una vasta gamma di progetti e settori. Ha guidato complessi progetti multidisciplinari, tra cui la progettazione completa e il supporto del cantiere per la Starbucks Reserve Roastery di Milano, oltre al concept design per il nuovo stadio dell’AC Fiorentina a Firenze. Attualmente sta seguendo il masterplan del progetto di rigenerazione urbana Supernova a Pavia.
Chi è James Finestone
Guida il settore Architettura di Arup in Europa, fornendo progettazione sostenibile ai clienti in tutto il continente. In qualità di Direttore specializzato in progettazione integrata, ha guidato complessi progetti multidisciplinari di costruzione e pianificazione in tutto il mondo. Ha conseguito un Master in AI e Machine Learning nell’ambiente costruito e vede il digitale come una parte fondamentale per risolvere le sfide del domani attraverso la progettazione. I lavori recenti includono il pluripremiato Centro di produzione Jaguar Land Rover nel Regno Unito, gli alloggi modulari sostenibili nei Paesi Bassi e il Roskilde Fjord Crossing in Danimarca.
* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project