Paesaggi in trasformazione: identificazione o spaesamento?
I paesaggi montani – alpini e appenninici – potranno svolgere un’efficace azione di contrasto nei confronti dell’angoscia territoriale
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Published 7 marzo 2022 – © riproduzione riservata
L’età moderna, con la sua fiducia illimitata nell’onnipotenza della tecnica, ha impresso una forte accelerazione alle trasformazioni del territorio, al punto da pregiudicarne la riconoscibilità. Le pesanti trasformazioni infrastrutturali dei luoghi hanno generato “non-luoghi”, corridoi anonimi di flussi in cui diventa sempre più difficile sostare, vedere, conoscere e riconoscere.
Paesaggi naturali e culturali, un dualismo fuorviante
Se conoscere è ricordare, come sosteneva Platone, la progressiva perdita della memoria storica dei luoghi ha svuotato la capacità d’identificare quei paesaggi che, attraverso il tempo, si sono sedimentati nel nostro immaginario simbolico. Il paesaggio, infatti, è il prodotto dell’interazione fra l’ambiente naturale e la costruzione artificiale, ovvero culturale, generata dall’intervento trasformazionale dell’uomo. La storia ne ha tramandato i contenuti nell’incessante processo di mutazione delle forme. La tendenza a separare paesaggi naturali e paesaggi culturali risulta, perciò, del tutto fuorviante. Nella relazione “natura-cultura” l’inclinazione dell’uomo a rappresentare il proprio spazio di vita, secondo modalità culturalmente connotate, rende insostenibile qualsivoglia dualismo oppositivo e separante. Ogni ambiente naturale, nella misura in cui viene percepito e vissuto sia in modalità reale, sia in forma ideale, sottostà a un processo di “acculturazione” che lo espone al gioco delle rappresentazioni, ossia alle costruzioni della mente.
Responsabilità verso i luoghi
Nella cultura italiana è ancora presente, tuttavia, qualche residuo concettuale che tende a contrapporre l’ambiente naturale selvaggio al paesaggio culturale, dove la nozione di paesaggio richiama interpretazioni di sapore crociano. Si tratta di una residua legittimazione filosofica della dicotomia uomo-natura, superata ormai dall’evoluzione del pensiero. Fra comunità umane e luoghi vi sono, infatti, relazioni di significato da intendere sia nel senso materiale della utilizzabilità (azione del costruire), sia nel senso immateriale del vedere, del contemplare, dell’identificare simbolicamente. Gli atti d’identificazione e riconoscibilità implicano atti di selezione e differenziazione tali da conferire un’anima al paesaggio quale antidoto nei confronti della serialità – la riproducibilità tecnica nell’accezione di Walter Benjamin – generatrice di derive banalizzanti nella qualità paesaggistica. La Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta nell’anno 2000, recita testualmente: “La qualità del paesaggio costituisce un elemento essenziale per il successo delle iniziative economiche e sociali”. Occorre contribuire, pertanto, a rafforzare un’etica e un’estetica della responsabilità verso i luoghi sulla base dell’equazione “bello da vedere-buono da pensare e da vivere”. In tal modo si sottraggono i luoghi al loro destino alienante di “non-luoghi”. Un esito inevitabile secondo l’antropologo Marc Augé, al quale si devono le più pertinenti osservazioni critiche intorno ai “non-luoghi” privi d’identità, di relazioni, di storia.
Angoscia territoriale dalla perdita di significato dei luoghi
Dallo choc emotivo causato dalla perdita di significato dei luoghi si possono generare situazioni di spaesamento e di disagio esistenziale o sociale, riconducibili al concetto di “angoscia territoriale” coniato dall’antropologo Ernesto De Martino. L’alienazione prodotta dal venir meno della relazione intenzionale con i luoghi accresce il disagio della civiltà in cui ci sentiamo sempre più coinvolti.
Un grande maestro del pensiero architettonico, Vittorio Gregotti, nel saggio Il territorio dell’architettura (1966) scriveva: “Ogni qualvolta un gruppo sociale elegge un sito a luogo simbolico, vi riconosce un valore, distinto dalla natura anche se ad essa dedicato […] L’universalizzazione della cultura, il diffondersi dei simboli comuni, il progresso tecnologico e il sempre più agevole trasporto a lunga distanza rende oggi, nel nostro modello di cultura, gli uomini indubbiamente più indifferenti all’ambiente urbano e territoriale di origine o quanto meno affievolisce il rapporto tra ambiente fisico e cultura dei gruppi sociali”.
Identità, nuovo, appartenenza
La forma più estrema di sostituzione dell’ambiente naturale con l’ambiente artificiale è sicuramente la città che, a differenza della montagna, è espressione di elevata complessità sociale.
La città metropolitana neutralizza, nei suoi abitanti, molte possibilità di “incorporazione” psico-culturale dello spazio (“dis-embedding”). Una rivoluzione copernicana nei modelli di mobilità può invertire la tendenza alla discontinuità fra spazi urbano-metropolitani e spazi extra-urbani come quelli delle aree interne, contrastando la dicotomia fra natura e cultura. L’identità non costituisce, infatti, un qualcosa di immutabile nel tempo da dover ingessare dentro schemi rigidi e cristallizzati. La sua magmatica plasticità implica sempre una relazione dialettica fra inclusione ed esclusione, un continuo meticciamento di significati, una cerniera mobile fra spazi interni e spazi esterni, una poliedrica porosità di sguardi.
Sulla rivista “Abacus” (n. 26, 1992) scrivevo: “L’apparire del nuovo artificiale spezza la contiguità degli spazi e la continuità dei tempi e conferisce al contesto una nuova plasticità”. Ma l’enfatizzazione del nuovo a ogni costo rischia di cancellare ogni cifra dell’appartenenza territoriale. Soprattutto in montagna, dove la ricchezza d’insediamenti storici, spesso abbandonati, esige il recupero attento delle forme tradizionali dell’abitare nel dialogo fra tradizione e innovazione.
Un recupero che non va disgiunto da apporti innovativi in grado di evocare il genius loci, anche se in presenza d’inevitabili processi di trasformazione che il livellamento culturale in atto tende a cancellare. In questo senso i paesaggi montani – alpini e appenninici – potranno svolgere un’efficace azione di contrasto nei confronti dell’angoscia territoriale, una condizione psico-esistenziale sempre più invasiva.
Immagine di copertina: Carl Ludwig Hackert (1740-1796), La valle di Chamonix vista dal villaggio di Argentière (1780)
Già docente di Antropologia filosofica e culturale presso l’Università di Genova. Già presidente generale del Club alpino italiano. Presidente del Comitato scientifico della Scuola per il governo del territorio e del Paesaggio di Trento. Docente presso la Trentino School of Management. Membro del Comitato scientifico della Fondazione Dolomiti-Unesco, e del Consiglio dell’Università della Valle d’Aosta. Editorialista del quotidiano “l’Adige” di Trento. Tra le principali pubblicazioni recenti: Il tramonto delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi (2008); I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia (2019); Un’estate in alpeggio (2021)