Anna Maria Indrio: architette più visibili, ma in un percorso accidentato

Anna Maria Indrio: architette più visibili, ma in un percorso accidentato

Dall’Italia alla Danimarca negli anni sessanta, il punto di vista di un’architetta impegnata, ancora attiva che, tra autonomia e lavoro collettivo, è stata anche per 25 anni partner dello Studio C.F. Møller

 

Published 15 maggio 2025- © riproduzione riservata

Incontro l’architetta Anna Maria Indrio nella sua casa romana. È da molto tempo che cerco di aprire un contatto con lei per intervistarla sulla professione di architetta. Ancora più delle difficoltà che ha vissuto, mi interessano il suo sguardo sull’Italia e sulla professione al femminile e il percorso che l’ha fatta diventare l’architetta che tutti conoscono. Anna Maria Indrio è una persona vitale e rigorosa, ha molto da raccontare tra aneddoti sulla professione e sui colleghi architetti e ha una chiara consapevolezza del valore di essere una donna che svolge la professione, anche in autonomia.
Quando le spiego che mi interessa il suo punto di vista sulla professione esordisce in questo modo: “
Durante la mia carriera ho sentito molti pregiudizi legati al mio genere. Il mondo dell’architettura era storicamente maschile, per non parlare dell’industria delle costruzioni, dove le donne erano totalmente assenti! Il mio entusiasmo e la mia personalità invadente venivano spesso accolti con diffidenza. La domanda implicita che mi sono trovata ad affrontare più volte era: ma chi è questa? Ho dovuto lavorare più duramente per guadagnarmi rispetto e dimostrare il mio valore. Il mio coinvolgimento politico e il lavoro nell’Associazione degli architetti, per anni coinvolta in molte posizioni di rilievo come giurie di concorsi, articoli e conferenze, mi hanno aiutata a comprendere meglio le dinamiche di potere, sia nella società, sia nella professione”. Partiamo dalla formazione.

 

La formazione è una parte importante: l’incontro con i maestri, la frequentazione delle letture e l’osservazione continua e attenta delle architetture contribuiscono a definire chi siamo. Qual è stata la tua formazione e come era l’ambiente in cui hai vissuto prima in Italia e poi in Danimarca?

Mi sono laureata nel 1970 alla Scuola di Architettura dell’Accademia reale danese, ma ero arrivata in Danimarca alla fine del 1965, iscritta al terzo anno di Architettura. Avevo scelto questa Facoltà perché coniugava il mio interesse sociale ed estetico. In quegli anni non era facile anche solo pensare di trasferirsi all’estero per studiare. Possiamo pensare che la mia sia stata una vera e propria emigrazione dovuta a un disagio sociale diffuso che proveniva dalla mia situazione familiare con genitori separati, famiglia disgregata e difficoltà economiche, a cui si aggiungeva una socialità difficile, se si confrontava con le dinamiche borghesi dei miei compagni di corso. Spesso mi veniva ricordato che ero donna e che non potevo o non dovevo fare molte cose, inoltre l’ambiente universitario era dominato da leader maschili. Il mio carattere indipendente e la mia volontà di affermarmi non erano certo d’aiuto in quel contesto.
L’avventura della mia vita prende avvio quando partii per la Danimarca con uno studente danese da cui aspettavo un figlio.
Lì era tutto differente: provenivo dall’ambiente accademico italiano dove l’architettura era dominata dalla composizione e dall’ideologia dei docenti. In Danimarca trovai una società che mi sembrava più equa, con un forte impegno sociale e una grande attenzione alla cosa pubblica. Mi mancava però il legame tra politica e architettura. Ho cercato di ritrovare questi temi dedicandomi al lavoro politico, partecipando e organizzando le proteste studentesche e i movimenti di contestazione nei quartieri. Questo impegno mi ha permesso di comprendere nel profondo le caratteristiche della società danese.

 

Come hai iniziato a progettare in Danimarca e ad affermarti come architetta? È stato necessario un atto di indipendenza?

Non è stato tutto facile. Se da una parte in Italia ero svantaggiata perché donna, in Danimarca non possedevo il bagaglio culturale legato a figure molto apprezzate in quel momento come Kay Fisker. Ricercavo modelli più vicini al modernismo romano come Mogens Lassen e Arne Jacobsen. Quando arrivai in Danimarca un razionalismo rigido e un’architettura scarna e pragmatica era preferita al primo funzionalismo nordico.
Nei primi anni lavorai in piccoli studi, ma per brevi periodi, e infine aprii uno studio con il mio partner e marito Poul Jensen. Lui era molto più grande di me e quindi con più esperienza, così che in quegli anni è stato il mio mentore. Insieme partecipammo a molti concorsi pubblici, che allora erano frequenti, vincendo una serie di premi come la Neuhausenske Legat (Medaglia d’oro dell’Accademia) per le proposte di miglioramento degli spazi esterni nel quartiere di Islands Brygge, e il primo premio al concorso pubblico per il nuovo edificio della chiesa Nørrevangs a Slagelse (località vicino a Copenaghen).
Quando il suo ruolo di mentore si esaurì, finì anche il nostro matrimonio. Il mio obiettivo di voler realizzare un’architettura di eccellenza cercando anche nuove strade fuori dal nostro studio non era compatibile con il suo bisogno di controllo su di me.

 

C’è un progetto o un evento che reputi significativo per la tua carriera?

Nel 1991, cercando la mia indipendenza, sono diventata partner dello Studio C.F. Møller, che in quel momento era uno degli studi più importanti della Scandinavia. Era famoso in tutto il mondo per essere l’autore dell’Università di Aarhus, una delle opere principali del modernismo danese.
Nel 1996 Copenaghen venne designata Capitale della Cultura e il governo stanziò ingenti fondi per rinnovare gli edifici pubblici. Questo segnò una svolta: la città passò dall’essere un luogo periferico a un centro internazionale e lo studio C.F. Møller aprì una sede a Copenaghen grazie alla mia collaborazione.
Fu in quel periodo che lo Studio C.F. Møller vinse il concorso internazionale per l’ampliamento della National Gallery of Denmark di Copenaghen, il primo lavoro che seguii in prima persona dall’inizio alla fine. Ebbi così l’occasione di fare sperimentazioni su tutto, dai materiali alla funzionalità, lavorando su un impianto classico di simmetrie e su uno spazio drammatico, il cui modello erano le cattedrali italiane e le prospettive di Roma, senza dimenticare la semplicità nordica e la cura del dettaglio.
All’interno dello studio, nei 25 anni in cui sono stata partner, ho mantenuto la mia autonomia e indipendenza espressiva, introducendo una sensibilità più gerarchica degli spazi e la sperimentazione di innumerevoli temi abitativi.

 

Il tuo racconto è significativo nel delineare l’importanza di potersi misurare liberamente nel progetto, di poter sperimentare e fare ricerca con la costruzione dell’architettura. Il ruolo nella professione si deve conquistare, ma anche ritagliare su di sé. Quale pensi che possa essere, in questi tempi, il ruolo delle professioniste nell’architettura?

Certamente siamo più visibili di prima, tuttavia il percorso resta accidentato. Le architette devono ancora lottare contro stereotipi e strutture di potere maschili. Inoltre la società contemporanea impone un controllo eccessivo sulla professione, riducendo lo spazio per la creatività. Per questo è fondamentale che la comunità degli architetti sia più unita e difenda la qualità dell’architettura come valore essenziale. Il nostro lavoro non riguarda solo gli edifici, ma la progettazione di una società più equa e inclusiva. La lotta continua e noi dobbiamo essere pronte a combattere per un’architettura che rifletta i nostri ideali!
Mi pare inoltre che la crescente burocratizzazione della professione abbia comportato una perdita di spazio per la creatività architettonica. Oggi gli architetti devono competere in un mercato globale, dove la qualità è spesso sacrificata a favore della produttività economica.
Oggi la sfida principale è il rapporto tra sostenibilità e qualità dello spazio. L’architettura deve rispondere alla crisi climatica senza perdere la sua dimensione poetica. Purtroppo vedo un rischio di standardizzazione: la sostenibilità viene spesso ridotta a una questione di efficienza tecnica, mentre dovrebbe essere un’opportunità per ripensare il modo in cui abitiamo il mondo. Un’altra sfida è la crescente privatizzazione della città. Lo spazio pubblico sta scomparendo a favore di una logica di profitto e gli architetti devono opporsi a questa tendenza. Dobbiamo tornare a progettare con una visione sociale, creando luoghi che favoriscano l’incontro e il senso di appartenenza.

 

Hai consigli da dare alle giovani architette che iniziano oggi la loro carriera?

Di non farsi scoraggiare dalle difficoltà e di credere nel proprio valore. L’architettura è un campo esigente dove il riconoscimento non è immediato, ma è fondamentale avere fiducia nelle proprie capacità e trovare una rete di supporto. Consiglierei anche di viaggiare e conoscere culture architettoniche diverse: solo confrontandosi con altre realtà si può sviluppare una visione più ampia e critica del proprio lavoro. Infine, le inviterei a non aver paura di sperimentare e di portare avanti la propria voce, anche quando il contesto sembra sfavorevole.
Per me è stato un percorso faticoso, colmo di conflitti con i miei colleghi e soci e anche con i miei mariti architetti. Era sempre evidente la difficoltà di muoversi in un mondo maschile, in cui pochissime donne erano presenti. La gelosia dei miei colleghi, in parte dovuta alla mia carriera e alla diffusione del mio nome, in parte alla tenacia con cui mettevo l’architettura al primo posto a discapito a volte del profitto, provocava continue discussioni.
Ho sempre creduto di poter bilanciare affetto, famiglia e lavoro, ma non è stato possibile: è il prezzo da pagare per una carriera. Oggi, a ottant’anni, continuo a lavorare, con progetti più piccoli, ovviamente, dal mio studio, sempre con tenacia e passione. Paradossalmente, sto ampliando la chiesa di Slagelse che ho costruito alla fine degli anni ottanta e sto rinnovando l’Ambasciata italiana di Copenaghen.
Non ho nessuna intenzione di fermarmi: nel mio intimo ho ancora molte cose da dire. Guardando indietro, ho avuto una bellissima vita e, guardando avanti, sono in attesa di altre opere a venire.

 

Autore

  • Emma Tagliacollo

    Componente del Comitato Scientifico di IN/Arch, responsabile del percorso di formazione Storia e Critica per il CTF, componente della Commissione parità di genere sempre per l'Ordine degli Architetti di Roma e provincia. Già Segretaria di IN/Arch Lazio e di DO.CO.MO.MO Italia, è esperta di pratiche urbane e ricercatrice indipendente specializzata nel patrimonio culturale. Si occupa di temi del moderno ed è autrice di contributi, anche video, sulle trasformazioni urbane e sulla valorizzazione dei beni culturali. Ha lavorato come ricercatrice al CNR e all'Università Sapienza di Roma sui temi dei centri storici minori e della partecipazione come governance e strategia innovativa di valorizzazione. Ha collaborato in Cina con WHITRAP UNESCO per l’applicazione del Paesaggio Storico Urbano. Dall’esperienza sul campo ha ideato e curato il progetto “Passeggiate fuori porta” con CNR e IN/Arch Lazio. È dottore di ricerca e specializzata in “Restauro dei monumenti architettonici” all'Università Sapienza, dove ha insegnato Restauro e Progettazione architettonica e dove è stata titolare del corso di Teoria e storia del design.

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