È stata la scelta giusta? Le reazioni dei big all’estero
Nelle autorevoli voci di strutturisti stranieri, un’antologia di considerazioni sulla scelta di demolire e ricostruire il ponte sul Polcevera
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La questione del ponte Morandi, del suo parziale collasso, della sua necessaria ricostruzione, non può limitarsi alla constatazione di questi fatti contingenti e drammatici, nonché all’accettazione del nuovo progetto senza entrare in riflessioni di più ampio respiro e in implicazioni di ordine intellettuale e culturale sull’attuale stato dell’arte dei ponti. Pare, infatti, che il livello di conoscenza finora raggiunto dalle indagini sul ponte, dall’agosto scorso, in sei mesi, non sia avanzato un granché e non abbia innescato alcun dibattito fecondo, se non un mare di polemiche. Non siamo riusciti a fare di meglio? È questo lo stato dell’ingegneria, oggi? Forse il carattere di urgenza non è stato d’aiuto, poiché la priorità era di restituire ai cittadini un ponte necessario. Ciò tuttavia non può prescindere da una considerazione: anche l’ingegneria va pensata come un’arte e le opere che ne scaturiscono come patrimonio culturale da apprezzare e conservare. Questo equivale a sancire la valenza storica d’infrastrutture territoriali come il lungo viadotto costruito da Morandi negli anni ’60.
Al proposito, già nell’agosto scorso anche dall’estero si erano espressi in tal senso Michel Virlogeux, Marc Mimram e Aurelio Muttoni: su «Le Monde» i primi due, su «Tracés» il secondo e su «Le temps» il terzo degli ingegneri-progettisti-professori che dall’estero hanno voluto gridare a voce alta la loro solidarietà e al tempo stesso l’ammirazione nei confronti di Riccardo Morandi, ingegnere d’eccellenza dei nostri anni ’60, il cui lavoro non si può ridurre alla triste catastrofe di Genova.
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Aurelio Muttoni in particolare si è pronunciato senza giudicare il nuovo progetto, bensì elaborando alcune riflessioni, approfondite in seguito con i suoi studenti del corso di Progettazione di ponti dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna. Dopo aver confrontato la tecnica avanguardistica di quel progetto italiano con alcune icone della tecnica automobilistica italiana di quegli anni, l’Alfa Romeo Giulietta ad esempio, si è chiesto: «Chi si permetterebbe di criticare oggi quei gioielli dell’eleganza e della tecnica ponendo l’accento sul fatto che non avevano cinture di sicurezza, ABS e airbag? Allo stesso modo chi si sognerebbe di demolire e ricostruire il Palazzetto dello sport di Pierluigi Nervi a Roma, per fare un esempio, con il pretesto che ha fatto il suo tempo?». Nella sana convinzione che il ponte Morandi sia un monumento alla stregua di altri, Muttoni ha lavorato con gli studenti su prototipi e schizzi che utilizzassero il meglio dell’odierna tecnologia per ottenere la struttura più robusta e resiliente possibile, scegliendo di conservare per altri 100 anni (è questo il periodo di esercizio con cui si progettano oggi strutture di questa portata) i due versanti di struttura superstite, consolidati, rinforzati, adeguati alle sopraggiunte esigenze di traffico e sicurezza e di progettare una nuova struttura di unione e transizione tra i due.
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Unire, passare attraverso, reintegrare: un tema molto difficile, una sfida che noi non abbiamo avuto il coraggio politico o il tempo di cogliere. L’impressione è che, con il ponte Morandi, non si perda solo un manufatto di qualità (fatta salva un’adeguata, programmata e puntuale manutenzione), ma un pezzo della nostra cultura, la cultura del costruire e, in particolare, la cultura dei ponti, che in epoca moderna si suole far nascere con la fondazione dell’Ecole nationale des ponts et chaussées di Parigi.
Nel merito del progetto di Renzo Piano entrano invece ingegneri della portata di Ian Firth, condividendo l’idea di una costruzione ex novo, che rispetto ad un “restauro” o ad una ricostruzione ed adeguamento strutturale offre la possibilità di realizzare un’opera contemporanea, con materiali adeguati ai tempi. Apprezza inoltre l’idea di semplicità e nitidezza generale che traspare dai rendering e trova molto eleganti le pile in se stesse, mentre il dettaglio degli appoggi è secondo Firth troppo elaborato e penalizzante dell’eleganza dell’insieme. Si domanda se tutti gli spazi verdi previsti nel progetto ai piedi del ponte verranno davvero realizzati al posto delle zone costruite attuali, cosa che sarebbe auspicabile e di grande vantaggio per Genova.
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L’ingegnera Cristina Zanini Barzaghi, autorevole voce femminile, già docente di Strutture all’elvetica SUPSI, progettista e assessore all’edilizia pubblica della città di Lugano, si esprime di nuovo a favore del mantenimento parziale del ponte, ciò che avrebbe potuto permettere alle nuove generazioni, sia di ricordare le vittime, sia di studiare i metodi costruttivi del passato per evitare errori futuri. «Ai tempi di Morandi vi era la possibilità di sperimentare e costruire opere geniali e complesse come il viadotto sul Polcevera», dice Zanini, «mentre oggi le infrastrutture vengono pianificate considerando aspetti un tempo trascurati dagli ingegneri come l’inserimento paesaggistico e l’impatto ambientale. Per la ricostruzione del ponte mi sarei quindi attesa un concorso d’idee internazionale con un approccio interdisciplinare sia per la progettazione strutturale sia per gli assetti urbanistici». E a proposito del nuovo progetto, Zanini ritiene «positiva la rigenerazione urbana proposta da Piano e innescata dalla ricostruzione del ponte, ma il nuovo manufatto non è per nulla interessante dal punto di vista strutturale». Infine denuncia il ruolo in cui sono relegati ora gli ingegneri, «meri calcolatori asettici: lo dimostra il fatto che il nuovo ponte sia stato progettato da un architetto e costruito da un’impresa generale». Di ciò attribuisce le responsabilità ai Politecnici e alle associazioni professionali che non dedicano sufficiente attenzione alla divulgazione della storia delle discipline tecniche.
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A quanto pare, nonostante le varie prese di posizione, anche i capolavori di dichiarata valenza storica si possono demolire, a patto di sostituirli con un manufatto migliore. «Servirà un po’ di tempo per capire se la qualità della città e la qualità della vita dei suoi abitanti è migliorata oppure no», conclude Muttoni. Tuttavia egli pensa, in fondo al cuore, che una parte della storia dell’ingegneria italiana se ne va, come fosse un giudizio di colpevolezza per l’ingegneria tutta; come dire che «l’ingegneria si è sbagliata!».