Nuovo vocabolario dell’abitare popolare
Proposte, polemiche, pubblicazioni, realizzazioni: un glossario internazionale a conclusione dell’inchiesta
Published 21 settembre 2024 – © riproduzione riservata
La nostra inchiesta Casa: un diritto… tanti rovesci ha intercettato una fase d’intensa riflessione sul tema dell’abitare. Per certi versi sorprendente, nelle dimensioni e nella portata. Di emergenza casa si parla in tutto il mondo, pur con sfumature diverse. E ne parlano tutti. Con il risultato che è spesso difficile riuscire a ricostruire il senso di un discorso disciplinare, centrato su architettura e progetto.
A come Abbordabile: l’aggettivo è brutto, ma ormai sembra sdoganato. Ha il merito d’integrare il significato della parola inglese affordable (“che ci si può permettere”) con quella italiana che indica la disponibilità di un oggetto ad essere avvicinato. Il progetto della casa sociale di oggi ha, soprattutto, questa dimensione: permettere l’acquisto (o l’affitto) da parte di chi sul libero mercato non trova soluzioni economicamente adeguate. Questo genera impatti a partire dai finanziamenti (anche pubblici, pur con forme di partenariato con i fondi privati) e, di conseguenza, sui processi del progetto.
B come Balcone: è stato simbolo del lock-down. Tutti a dire, allora, “Mai più senza!”. Effettivamente gli alloggi sono oggi più proiettati verso l’esterno. Anche se la definizione di balcone pare non sufficiente a descrivere la varietà delle soluzioni. Per gran parte degli edifici sono logge profonde o comunque spazialità ibride tra dentro e fuori, con possibilità di parziale chiusura. Ma nell’estate del 2024 un balcone è anche emblema di scarsa cura del patrimonio. Il crollo di una struttura aggettante, a fine luglio, nella Vela celeste di Scampia ha provocato una morte, feriti e la sensazione di un’edilizia residenziale fuori controllo.
C come Co-housing: da anni, il mantra di un certo modo d’intendere l’innovazione tipologica. Si condividono gli spazi, si riducono i costi, si aumenta la socialità. La realtà fatica a sposarsi con questa logica, perché la normativa non aiuta e le famiglie italiane (pur con tutte le modifiche che il concetto stesso sta attraversando) vedono ancora nella casa un fattore d’indipendenza e privacy. Il risultato è che, costruendo prevalentemente in maniera tradizionale (ogni alloggio la sua cucina, la sua camera da letto, il suo spazio giorno, pur ibrido e trasformabile in un ufficio, servisse), le esperienze di co-housing sono quantitativamente limitate.
D come Decreto Salva-Casa: rivoluzionario per qualcuno, devastante per altri. Nulla di tutto ciò: il Decreto 69 del 29 maggio 2024, convertito nella legge 105 del 24 luglio 2024, va a modificare il “mitico” Decreto 380 del 2001 ma in aspetti talmente marginali da non costituire elemento significativo per il progetto. Anche la possibilità di misure ridotte (altezza interna di 2,4 invece di 2,7 m, superficie monolocale di 20 invece di 28 mq) riguardano alloggi esito di una riqualificazione. Non le nuove costruzioni. Come spesso accade, tanto rumore per poco, o nulla.
E come Equilibrio: Un piccolo saggio di Giancarlo Consonni (L’equilibrio come abito morale) accompagna il bel libro (Caruso Mainardi Architetti. Abitazioni / Housing, Electa, 2023, 144 pagine, 35 euro) sui 20 progetti residenziali firmati dallo studio di Alberto Caruso ed Elisabetta Mainardi. Non semplice trovare pubblicazioni focalizzate sul tema dell’housing popolare, in un contesto chiaro (Milano e hinterland), in un lasso temporale di oltre 40 anni. Succede qui, e il testo di Consonni diventa un possibile nesso per leggere la transizione dell’architettura residenziale: “[…] il tutto è risolto all’insegna dell’equilibrio. Su più fronti. Il primo è il disegno urbano. Potenza e delicatezza convivono […] Il secondo riguarda la capacità di coniugare, nella conformazione degli spazi, la triade privato, collettivo e pubblico. […] Il terzo fronte, infine, riguarda la figurazione e il linguaggio. Nessun protagonismo narcisista, ma, all’opposto, il ritrovamento paziente di una propria voce nel coro dei professionisti di valore”.
F come Fluido, come l’Abitare: molti gli aggettivi affiancati al termine abitare. La Fondazione Feltrinelli ne ha sperimenta uno – in un dossier pubblicato a fine 2023 e con una successiva pubblicazione a cura di Silvia Canfora (Collaborare e abitare, scaricabile gratuitamente) – che racconta un’esigenza di casa diversa: non quella per tutta la vita, ma quella hic et nunc, qui ed ora. “Il progetto Abitare Fluido, che abbiamo condotto tra Milano e Torino – spiega Massimiliano Tarantino, direttore di Fondazione Feltrinelli – è un ulteriore tassello per immaginare e dare forma a quella città intelligente, magmatica, senza barriere, che esprima il nostro bisogno di biodiversità e di nuovi modelli abitativi che rimettano al centro socialità e senso di comunità. Una città disposta all’incontro e alle contaminazioni, modellata sui desideri di chi ogni giorno prova a fare la differenza”.
G come Ground Floor: sembra questa la vera sfida dell’abitare sociale, dotare i piani terra di quegli spazi di servizio capaci di costruire condizioni per la comunità e la coesione. D’altronde proprio la mancanza di questo tessuto connettivo, spesso progettato e non realizzato, è alla base delle criticità di tanti quartieri novecenteschi di edilizia popolare. Oggi i progetti internazionali più significativi sembrano ricercare luoghi ibridi, aperti, accessibili, senza una destinazione predefinita, disponibili ad essere usati in maniera varia. Molto spesso hanno forme centripete a costruire corti, il cuore identitario dei complessi.
H come He Lifeng: il vice-presidente della Cina. A primavera 2024 ha annunciato un piano del governo con il quale lo Stato interviene sull’enorme bolla immobiliare (si stimano 4 milioni di appartamenti invenduti, a cui se ne aggiungono circa 10 venduti ma mai conclusi a causa delle difficoltà del real estate) comprando. Comprendere a pieno le dinamiche cinesi è spesso complicato, ma è evidente che, anche lì, c’è un problema – anche architettonico – con case che nessuno vuole comprare e con famiglie che di una casa hanno bisogno ma senza avere la possibilità di accederci.
I come INA Casa: sembra (ancora oggi…) impossibile in Italia fare un discorso sulla casa popolare senza citare il più importante piano residenziale della storia. L’INA Casa ha cambiato il volto di molte aree urbane offrendo soluzioni abitative anche di qualità ma, è necessario ricordarlo, si è concluso più di 60 anni fa, nel 1963. Serve una moratoria. Di INA Casa si parli, ma solo in contesti di storia e critica. Come, ad esempio, la mostra INA Casa Via del Mare, nuovi spazi di socialità, al MUST di Lecce, nello scorso aprile. La cura di studioconcreto portava con sé – grazie ad approcci multidisciplinari – una riflessione sull’abitare e sulla ridefinizione delle relazioni sociali e delle dinamiche comunitarie.
L come Labour Party: le elezioni inglesi di luglio 2024 lo hanno riportato al governo. Uno dei primi annunci del premier Keir Starmer riguarda l’housing: 1.5 Million New Homes Coming Soon. Al netto della quantificazione del soon (i 5 anni di legislatura), i contorni di questa operazione mediatica non sono ancora chiari. Il governo darebbe impulso ad uno sviluppo residenziale con quote obbligatorie di alloggi di natura sociale. Concentrando le nuove abitazioni – ed è aspetto interessante nella politica delineata – in una serie di new towns, ognuna capace di ospitare almeno 10.000 famiglie. Non si cerca la densità urbana, e nemmeno la riqualificazione, si scommette invece su una forma rinnovata di sprawl.
M come Mix: quello funzionale è uno dei miti dell’abitare sociale. Molto se ne è scritto, non altrettanto se ne è fatto. Un’esperienza innovativa arriva da Inwood, periferia nord di New York. Da poco inaugurato, l’edificio di 14 piani disegnato da Fogarty Finger con linee rigorose e a suo modo monumentali ospita 174 alloggi convenzionati, mentre nel basamento di due piani su strada trova spazio una biblioteca pubblica. Oltre all’integrazione d’uso, c’è una ragione di opportunità: unire le funzioni permette di ridurre i costi dell’area e quelli realizzativi e, d’altra parte, la presenza di una struttura collettiva così identitaria (la città di New York sta scommettendo su biblioteche diffuse) consente di contenere le polemiche NIMBY che spesso ancora, alimentate dai residenti del quartiere, accompagnano gli interventi di social housing.
N come Newson: di nome di battesimo fa Gavin, è democratico e dal 2019 governa la California. All’inizio della campagna elettorale, scrisse “l’alloggio è un bisogno umano fondamentale”, promettendone 3,5 milioni entro il 2025. Risultato ben lontano dall’essere raggiunto, nonostante una serie di provvedimenti, tra cui una sorta di moratoria per realizzare piccoli condomini dove era permesso solo lo sviluppo unifamiliare. I miglioramenti sono modesti e la California, paese più popoloso degli USA e per decenni terra promessa per milioni di persone, sta vivendo gli effetti collaterali del successo: ci sono poche case, il tasso demografico si è invertito e il fenomeno degli homeless (tra 150 e 200.000) è esploso in tutta la sua drammaticità, con quartieri interi delle città trasformati in slums con tendopoli.
O come Olimpiadi: succede con quello parigino di Saint-Denis, succederà con quello di Porta Romana a Milano (Giochi invernali 2026): i villaggi diventano (in parte almeno) le nuove case popolari, a giochi finiti. Una buona notizia, per un paese – l’Italia – in cui oltre la metà delle case abitate risalgono al Novecento. Gli interventi di housing sociale aiutano ad invertire la tendenza migliorando il patrimonio. Ma non convincono le condizioni: si fa così perché, altrimenti, è difficile mobilitare risorse. E, soprattutto, per chi si progetta? Al netto dei letti di cartone e dell’aria condizionata (per stare alle recentissime, e anche un po’ banali, polemiche parigine), non pare scontata una sensibilità sul disegno di case adeguata se prima (pur per pochi giorni ma nel momento della massima attenzione mediatica) queste case devono ospitare atleti.
P come Prefabbricazione: sembra spesso sul punto d’imporsi nel mercato edilizio, mancando sempre il passaggio decisivo. Almeno nell’ultimo secolo è stato così. Oggi però sembrano effettivamente esserci le condizioni perché possa diventare davvero un fattore imprescindibile nel campo dell’housing sociale. Da una parte la velocità di realizzazione e consegna, dall’altra il rispetto delle normative ambientali (e anche delle sue interpretazioni) spingono verso soluzioni che molto spesso si traducono nella prefabbricazione, soprattutto in legno. Molti mercati esteri (il nord ed est Europa, prima ancora che il nord America) hanno numeri decisamente importanti, mentre stenta quello italiano, ancora fortemente condizionato da imprese medie e piccole, ancorate alla costruzione tradizionale in cantiere.
Q come Quartiere: il catalogo ragionato di 105 quartieri residenziali italiani compare nel ricco libro di Sergio Stenti, Housing in Italia. Dalle case popolari all’edilizia sociale privata 1903-2015 (Clean Edizioni, 2023, 292 pagine, 30 euro). Al netto dell’interesse storico, la pubblicazione permette di ragionare su come, nel corso di un secolo, sia progressivamente svaporata l’idea unitaria, e forse un po’ enfatica, della costruzione di pezzi di città nella forma del quartiere semi-autonomo. Il progetto per l’housing oggi sembra più propenso ad insinuarsi in contesti esistenti, trovando occasioni e adattandosi ai contesti.
R come Riconoscimenti: cenerentola dell’architettura, fino a qualche anno fa. Altri i progetti che davano prestigio, non quelli di housing, figuriamoci se di edilizia popolare. Ora, grazie ad una crescita di sensibilità, tutto è cambiato. I più prestigiosi premi vanno spesso ad interventi abitativi. Ad aprire la strada, nel 2019, il RIBA Stirling Prize al progetto per Goldsmith Street a Norwich di Mikhail Riches. Da allora difficile trovare architetti celebrati (spesso, ad onor del vero, gli stessi) che non si siano cimentati con progetti residenziali. Se vuoi capire l’architettura contemporanea, segui la casa.
S come Spazi comuni: impossibile oggi pensare ad edifici di edilizia popolare senza le infrastrutture sociali, ovvero spazi di servizio necessari a sostenere l’abitare. Nell’ambito di una visione della vita e della società meno incasellata (qui lavori, qui dormi, qui ti svaghi), l’ibridazione diventa sempre più una necessità, in parte anche spinta dalla retorica della prossimità. Non sono più elementi di sostegno e supporto alla casa (come era), ma un fattore che conferisce identità al progetto stesso. Una sfida perché richiede al progettista competenze diverse o, forse, più opportunamente, spinge verso team di progetto davvero integrati.
T come Tourist go Home: lo slogan, certamente poco urbano, ha iniziato a circolare. Partendo da quelle città – come Barcellona – che si stanno domandando se l’assedio turistico abbia un senso, sperimentando a livello amministrativo il blocco degli affitti a breve termine. L’equazione, un po’ semplicistica se si osservano i numeri, è questa: ci sono poche case per i cittadini e queste poche costano troppo, perché troppi proprietari sono attirati dai guadagni più alti garantiti (o promessi) dal turismo. Sicuramente è una dinamica che impatterà sulla distribuzione delle abitazioni nel prossimo futuro, all’interno di nuovi equilibri tra centri e periferie, a livello locale e globale.
U come Ursula von der Leyen: la riconfermata leader della Commissione Europea ha inserito – nella squadra formata dopo le elezioni dello scorso giugno – un commissario dedicato all’edilizia abitativa, il socialdemocratico danese Dan Jørgensen. Una scelta caldeggiata dai partiti di sinistra, convinti che l’emergenza sociale sia fortemente influenzata dalla casa, abbia una dimensione continentale e abbia bisogno di un quadro di azione ampio e coordinato nei 27 paesi UE. Sull’utilità della scelta ci sarà tempo di valutare: sicuramente la Commissione von der Leyen conferma una certa vicinanza ai temi dell’architettura e del progetto, come dimostrato con il New European Bauhaus.
V come Vassal (Lacaton & Vassal): lo studio francese Pritzker 2021 interpreta in maniera emblematica lo spirito del tempo rispetto al progetto residenziale. Approccio minimale, poco enfatico, che si adatta alle condizioni, dialogando con esse. Sono soprattutto gli interventi sull’esistente, come nel quartier du Grand Parc a Bourdeaux, a raccontare come un retrofitting energetico può trasformarsi, grazie a un progetto coraggioso, in un’immagine rinnovata e in un’innovativa spazialità per gli alloggi.
Z come ZEN: il quartiere di Palermo, emblema da una parte del fallimento (o comunque delle molteplici criticità generate) dalla sperimentazione utopica e megastrutturale dell’edilizia sociale italiana del dopoguerra, dall’altra dei tentativi (non megastrutturali se non per i nomi coinvolti, ma ugualmente utopici) di rilancio e trasformazione dal basso. Intorno allo ZEN sono accorsi in tanti, come al capezzale di un malato terminale: giardini e spazi pubblici, Manifesta 12, Gilles Clément, Coloco, e poi Renzo Piano con G124. Progetti giusti, storie belle, approcci da diffondere. Ma poi ti giri a guardare quello che c’è intorno e ti domandi se quelli sono gli strumenti sufficienti a risolvere, davvero, le problematiche dell’abitare sociale.

Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale