Inchiesta a cura di Michele Roda
Offrono pochi comfort e consumano molta energia. Ma soprattutto sono poche, e costosissime. Per uno stato che si fonda sulla “casa di proprietà” e che ha abbandonato per decenni la pratica della “casa pubblica”, definire critiche le condizioni attuali dell’edilizia residenziale sociale pare addirittura un eufemismo.
C’è una dimensione qualitativa che chiama in causa a pieno titolo il progetto architettonico e che la pandemia ha mostrato in tutta la sua urgenza: le “nostre” case sono tendenzialmente poco adatte alle esigenze di singoli e famiglie e i necessari aggiornamenti tipologici e tecnologici vengono recepiti con grande difficoltà dalla legislazione e dai decisori pubblici, oltre che dal mercato.
Ma gli ultimi mesi hanno anche portato alla luce una questione sensibile che ha impatti enormi sulla dimensione urbana. Soprattutto nei grandi centri, lo stock di “affordable” alloggi sembra inadeguato, i proprietari privati tendono a preferire gli affitti brevi, le “case popolari” tradizionali sono preda di incuria e abbandono, i costi dell’abitare sono spesso inconciliabili con gli stipendi.
E così, di fronte a case che (anche se avrebbero bisogno di farlo) cambiano poco, si modifica radicalmente la geografia sociale di città e paesi, con trend crescenti – non solo tra la popolazione immigrata – nei numeri di chi una casa non l’ha.
La nostra inchiesta ha l’obiettivo di raccontare queste dinamiche, anche attraverso il confronto con realtà internazionali.
Immagine di copertina: Christopher Statton, Megan Wilson, Clarion Alley, progetto “Better Homes and Gardens Today” (2015) – https://clarionalleymuralproject.org/mural/housing-is-a-human-right/
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