La vendetta inglese della Subtopia: quando il nuovo non basta mai

La vendetta inglese della Subtopia: quando il nuovo non basta mai

Nell’ormai cronica crisi di quantità e qualità dello stock abitativo che affligge molti paesi occidentali, il Regno Unito non fa eccezione

 

Published 08 maggio 2024 – © riproduzione riservata

LONDRA. Il Cambridge Centre for Housing & Planning Research ha stimato che servono circa 240.000 abitazioni all’anno per affrontare la crisi abitativa al di qua della Manica, in una delle nazioni con il patrimonio immobiliare più obsoleto del mondo, che, nel picco dell’attività edilizia, tra gli anni ’30 e ’60 del XX secolo, produceva in media 350.000 case l’anno.

Un patrimonio edilizio consistente in cui alle tradizionali e pittoresche linee di terrace houses vittoriane o di semidetatched georgiane, si è aggiunta un’enorme quantità di bungalow, torri o condomini, costruiti velocemente, e spesso male. Un patrimonio non sufficiente per una nazione che, a dispetto dell’Italia, continua a crescere con un aumento di popolazione nel 2023 di quasi il 7% rispetto al 2021.

Il tragico incendio della Grenfell Tower nel 2017 e la morte di un bambino a causa della muffa in una council house (le case ad affitto calmierato di proprietà pubblica) nel 2020, sono solo due degli esempi più eclatanti dei fallimenti della pianificazione abitativa, che – tra i tantissimi problemi – ha di base un sistema estremamente finanziarizzato e deregolato che non ha saputo affrontare, in nome del mantra neoliberale degli ultimi 14 anni di governo tory, non solo l’obsolescenza dello stock edilizio pubblico e privato, ma anche le istanze d’igiene, benessere e sicurezza diffuse in Europa continentale.

Le complicazioni dovute al quadro politico s’intrecciano anche ad altri problemi, più settoriali. Tra questi materiali scadenti, manutenzioni inesistenti, parcellizzazione delle competenze e relativo scarico di responsabilità. Gli ordini professionali degli architetti (ARB e RIBA) stanno lavorando negli ultimi anni a nuovi regolamenti, focalizzandosi sulla sicurezza, la sostenibilità ma anche sulla richiesta di più concrete valutazioni post occupazione (post-occupancy evaluation), strumenti fondamentali e spesso ignorati.

 

Una sfida culturale

Le città inglesi non hanno la periferia o, meglio, ce l’hanno ma non hanno il termine periferia. Per un docente italiano nel Regno Unito parlare di periphery ad un gruppo di studenti spaesati è un’esperienza abbastanza divertente. Il termine per la periferia è suburb, che non ha nulla a che vedere con i nostri quartieri dormitorio o con le banlieux e le cité francesi (tutti termini che gli architetti usano con una certa condiscendenza, un paternalismo post-INA Casa non ancora del tutto esaurito). Il suburbio britannico è basso, con villette tutte uguali, giardini piccoli e curati, con elementi kitsch e automobili lucide parcheggiate davanti alla porta d’ingresso, e caratterizzato dall’assenza totale di servizi. Non ci sono negozi, farmacie, nemmeno il tradizionale pub, che negli spot delle New Towns degli anni ’50 era considerato servizio fondamentale per ogni nuovo quartiere. Sebbene diverso, questo suburbio non è dunque meno distopico di una qualsiasi grande periferia italiana, e altrettanto problematico. È un luogo che, al contrario della periferia nostra, ha da un lato il grande pregio di poter salvaguardare la necessità d’individualismo all’interno di una comunità, ma dall’altro è costoso, rimanendo comunque di scarsa qualità.

 

Ancora sprawl

Per decenni l’espansione di nuovi quartieri è stata fronteggiata, almeno in parte, dal sistema delle Green Belt. Istituite nel 1947, coprono quasi il 13% del territorio inglese. Ora la crisi per la mancanza di abitazioni le sta mettendo in discussione, considerando la necessità di realizzare nuove case una priorità. Così, le abitazioni mono o bifamiliari si stanno espandendo a macchia d’olio, soprattutto intorno alle cittadine più piccole. Nel frattempo, le residenze a blocco costruite in anni di boom economico che troviamo non solo intorno a Londra, ma anche in alcune grandi città del nord (Leeds, Manchester, Sheffield, Liverpool), non sembrano rappresentare una reale alternativa al sistema dello sprawl.

 

Pochi recuperi intelligenti, molti rimpianti

Sono ancora troppo pochi gli esempi di sapiente recupero di complessi residenziali, e sono spesso limitati ai progetti più significativi, così come brucia ancora la scelta di demolire i Robin Hood Gardens di Peter e Alison Smithson.

Vale la pena però citare il recupero del Brunswick Centre a Londra a cura di Levitt Bernstein completato nel 2006, o Park Hill a Sheffield, la cui prima fase è stata terminata da Hawkins&Brown nel 2013 e la seconda nel 2022 da Mikhail Riches. Progetti di rinnovo intelligenti, che riescono a riportare alla luce la bellezza ed eleganza originale degli interventi brutalisti, trasformando gli spazi interni in ambienti moderni e piacevoli, anche se con un gusto a volte così raffinato da poter essere apprezzato solo da certi palati. Così, come spesso accade anche in Italia, purtroppo, il caro costo del recupero non trova un mercato di vendita fertile come quello del nuovo.

 

 

Nuove proposte

I valori però – come sempre – cambiano, persino nel Regno Unito del re-urbanista Carlo III, e una generazione di architetti attenti e innovatori sta lavorando – tra mille critiche e polemiche – alla realizzazione di un nuovo sistema di valori residenziali. Tralasciando quindi le espansioni urbane di casette in mattoncini rossi con i tetti spioventi, realizzate dai grandi developer, troviamo architetti che finalmente sembrano proporre compromessi convincenti tra qualità e densità. Peter Barber, Sarah Wigglesworth, o Alison Brooks, ad esempio, hanno realizzato piccoli quartieri residenziali nei sobborghi di Londra e altre città, che cercano nuovi compromessi.

Progetti come Edgewood Mews a Londra (Barber, 2021), Trentin Basin a Nottingham (Wigglesworth, 2023) o Lot 4 a Cambridge (Brooks, in costruzione) rispondono all’esigenza del nuovo, e del senso di appropriazione dello spazio individuale o per nucleo familiare, investigando però nuove densità. Così le unità non sono più indipendenti, ma ragionevolmente variegate, offrendo soluzioni per nuclei familiari sempre più diversi. La qualità di materiali e tecniche costruttive risulta sapientemente coniugata con principi di sostenibilità, e il costo mitigato dalla condivisione di servizi ed elementi distributivi.

Lo sforzo di questi architetti si sta moltiplicando grazie ad un mercato immobiliare vivo ma anche grazie al supporto degli ordini professionali, che da qualche anno continuano a premiare progetti residenziali. Indicativo, ad esempio, che nel 2019 lo Stirling Prize sia stato assegnato per la prima volta ad una council house, con il progetto di Goldsmith Street a Norwich, di Mikhail Riches e Cathy Hawle.

Interessante sottolineare che il cambio di rotta sembra possibile anche quando si parla di scale più grandi. Interessante il caso del masterplan in fase di realizzazione da Sheppard Robson per East Wick e Sweet Waters. Siamo nella zona dell’Olympic Park, ad est di Londra, un’area che dopo le Olimpiadi del 2012 ha vissuto notevoli cambiamenti e che rappresenta un esempio positivo di riqualificazione post grande evento. L’intera area è di circa 280.000 mq e il progetto, diviso in tre fasi, prevede la realizzazione di quasi 2.000 abitazioni. Seguendo le indicazioni delle autorità urbanistiche londinesi, il masterplan prevede non solo una varietà di appartamenti tra mono, bi, trilocali e terraced houses, ma anche differenti forme di acquisto, includendo canoni di affitto agevolati e differenti funzioni, con spazi per servizi commerciali e comunitari, ma anche varietà di soluzioni progettuali. Sheppard Robson, infatti, coordina gli interventi con linee guida per una serie di progettisti (tra cui AStudio, Piercy+Company, Studio Egret West, ShedKM) a cui sono affidati i vari lotti. Il risultato è un piccolo villaggio variegato, anche se mediamente denso, con blocchi residenziali che parlano dialetti anche molto diversi di uno stesso linguaggio. La densità, quindi, diviene finalmente fattore determinante, anche considerando la posizione strategica dell’area, ma arricchita da un indirizzo progettuale di qualità.

 

 

Azioni deboli, liberismo forte

Sembra quindi che varietà e densità siano i termini chiave per questa nuova ondata di sviluppo residenziale inglese, con l’auspicio (o forse sogno?) che anche i grandi developer cadano nella rete di un’architettura ragionata.

I segnali positivi ci sono. Il Public House Manifesto presentato lo scorso gennaio da Archio Ltd rappresenta un buon punto di partenza, ma – come notato dal co-direttore dello studio, Mellis Haward – richiede l’esistenza di una comunità che attivi processi di social housing, per raggiungere quei soggetti troppo deboli per creare un gruppo di famiglie significativo.

Anche Paul Karakusevic, di Karakusevic Carson Architects, sottolinea le esperienze positive di lavoro con i Local Council, ma le buone pratiche, incapaci d’inserirsi in un tessuto legislativo solido, tendono ad essere fragili. Infine, e forse questo è il tema più importante, la tendenza dei Local Council di operare come attori finanziari: il citato progetto di Goldsmith Street a Norwich è stato messo in vendita a pochi anni dalla realizzazione con la formula del right to buy. Questo schema ha sollevato numerose critiche, poiché invece di usare le abitazioni per risolvere la crisi immobiliare, le mette in vendita a prezzo calmierato ai locatari attuali, di fatto eliminando dal mercato quella percentuale di abitazioni più urgente, usando le tasse dei contribuenti per stimolare il mercato tradizionale che non è in crisi. Continuando così di fatto la politica thatcheriana, inaugurata nel 1979, di vendita a prezzi inferiori a quelli di mercato del patrimonio immobiliare pubblico.

 

Una lunga battaglia tra Subtopia e pianificazione

Questo il Regno Unito della costante crisi abitativa, degli enormi quartieri senza servizi, ma dai prati immacolati e dai mattoni rossi perfettamente allineati. Il luogo di una lunga battaglia, innanzitutto culturale, tra Subtopia e pianificazione. Una battaglia che l’Inghilterra combatte da tempo: il Regno a venire di J. B. Ballard è un supermercato in cui la guerra ideologica si fa violenza fisica, dove il fascismo dello shopping ha soppiantato i tradizionali paradigmi sociali urbani (un esempio indicativo, il Regno Unito ha perso il 6% dei suoi pub negli ultimi 6 anni, con la chiusura di oltre 3.000 locali).

D’altronde, già nel 1955 Ian Nairn e Gordon Cullen, con il loro provocatorio numero Outrage di «Architectural Review» invitavano architetti e urbanisti ad una ribellione contro lo sprawl della Subtopia, che distruggeva il paesaggio inglese. Ma in pochi, oggi, sembrano averli ascoltati.

Autori

  • Carla Molinari

    Senior Lecturer in Architecture e Direttrice del Corso di Laurea Triennale in Architettura presso la Anglia Ruskin University in Gran Bretagna, dove insegna storia, teoria e progettazione dell’architettura. Ha insegnato alla Leeds Beckett University, University of Liverpool, e Sapienza Università di Roma, dove si è dottorata in Architettura. Teoria e Progetto nel 2016. Ha pubblicato su architettura e cinema, teorie spaziali e compositive, rigenerazione urbana, e strategie narrative per l’architettura. Nel 2020 ha vinto un Paul Mellon Research Grant per una ricerca d’archivio su Gordon Cullen, e nel 2016 ha ricevuto la British Academy Fellowship dalla Accademia Nazionale dei Lincei per un progetto su Peter Greenaway e Sergei Eisenstein. Nel 2018 ha pubblicato il libro “Architettura in Sequenza” con Quodlibet.

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  • Marco Spada

    Senior Lecturer in Architecture alla University of Suffolk (UK), ha ottenuto il suo PhD nel 2016 presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sul rapporto tra memoria e progetto nel recupero degli impianti industriali. Autore di “Industryscape” (Aracne), è specializzato in storia urbana, analisi configurazionale e sull’interazione tra l’ambiente costruito e memoria. Ha studiato presso l’Univeristà Roma Tre, la University of Liverpool, e il Politecnico di Danzica. È impegnato in diversi progetti di ricerca, tra cui una su Gordon Cullen, celebre autore di "Townscape"; inoltre, Marco ha recentemente ottenuto un finanziamento attraverso un Grant Horizon per uno studio sull'impatto delle acciaierie sulle comunità locali in Italia, Polonia e Belgio.

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