America Latina, nuovi immaginari per la crisi abitativa

America Latina, nuovi immaginari per la crisi abitativa

Riflessioni e proposte per un’innovazione trainata dall’architettura e dal progetto

 

Published 16 settembre 2024 – © riproduzione riservata 

Con poche eccezioni, le politiche abitative in America Latina sono state storicamente carenti. Una condizione che si riflette in due immagini emblematiche: da un lato l’autocostruzione – che ha dominato la storia dell’edilizia popolare fino ad oggi, rappresentando oltre l’85% della produzione – caratterizzata da precarietà e disuguaglianza; dall’altro alcune risposte architettoniche e urbane di valore ma che si sono limitate a soddisfare soltanto una piccola parte della domanda. Alcune soluzioni eccezionali, riconosciute a livello internazionale, hanno tratto ispirazione dalle politiche abitative dell’emisfero nord, basate su significativi investimenti nel settore come parte integrante del sistema di welfare. In questo processo l’architettura e l’urbanistica hanno svolto un ruolo strategico, proponendo un’ipotesi basata sulla democratizzazione dell’accesso all’alloggio, con l’obiettivo di universalizzarlo attraverso la produzione su larga scala e la massificazione. Si tratta di un approccio che ha acquisito slancio dopo la seconda guerra mondiale.

In America Latina l’edilizia abitativa come politica sociale è tuttavia rimasta un’utopia irrealizzata. In particolare in Brasile, dove tale processo si è svolto tardivamente e in due modi distinti. Da un lato alcuni progetti importanti, molto noti, che non sono però riusciti a soddisfare la domanda esistente, esiti di un modello di crescita economica mirato ad accelerare l’industrializzazione e la modernizzazione del paese, ma in cui l’accesso ai diritti sociali era limitato e subordinato all’occupazione e al controllo statale.
Dall’altro il modello di costruzione standardizzata e di massa che si è consolidato durante la dittatura militare (1964-85), un periodo in cui la mercificazione dell’edilizia abitativa è stata istituzionalizzata, stabilendo i parametri per l’espansione della proprietà, attraverso la National Housing Bank e l’Housing Finance System. Questo modello, caratterizzato da complessi residenziali standardizzati inseriti in un tessuto urbano mal pianificato, ha dato origine a un tipo di città in cui forma ed esperienza sono introverse e scollegate dal tessuto urbano. In questo approccio antiurbano, ogni diversità – urbana, bioclimatica, sociale, culturale, tecnologica – viene ignorata.

La crisi abitativa sembra avvicinare nord e sud del mondo. La riproduzione massiccia di alloggi, secondo il paradigma funzionalista moderno, ha portato a un processo di alienazione dall’esperienza quotidiana dei suoi abitanti, segnato da deterritorializzazione, omogeneizzazione spaziale e segregazione. Tuttavia, la situazione brasiliana, come gran parte dell’America Latina, si distingue per la limitazione delle politiche abitative statali e per l’industrializzazione a basso salario, che ha alimentato un processo di urbanizzazione esplosivo ed escludente.

 

Arriva il neoliberismo, la crisi si allarga

Dagli anni settanta questo modello ha subito una trasformazione radicale in tutto il mondo. Le idee precedenti hanno gradualmente lasciato il posto al progetto neoliberista, che ha promosso nuovi quadri teorici, concettuali e pratici. Seguendo il mercato, questi concetti hanno iniziato a plasmare la produzione di alloggi, così come altri servizi urbani: l’alloggio-merce è diventato un bene finanziario, seguendo il modello globale one-world-fits-all.

Gli esiti di questa crisi si avvertono in modi diversi. Nel sud del mondo si traduce prevalentemente nella mancanza di modelli qualificati di creazione di città, nell’urbanizzazione diseguale e nell’esclusione delle popolazioni a basso reddito dai centri urbani, progressivamente più costosi e inaccessibili. In questo quadro, in America Latina sembrano radicalizzarsi temi discussi nel contesto europeo: l’ostacolo di alternative all’idea di proprietà della casa, l’intenzione di aggiornare tipologie o tecnologie, la mercificazione della terra, l’omogeneizzazione dell’architettura e la produzione di una geografia socialmente diseguale.

Questi esempi offrono una prospettiva per riflettere sul futuro della questione abitativa, considerando la sua inseparabilità dalla radicalizzazione e generalizzazione dei processi urbani osservati nelle principali città del capitalocene. La tendenza a sopprimere il valore d’uso della città, sostituito dal valore di scambio che viene presentato come l’unico modello possibile, richiede nuovi approcci critici in grado di spingerci a ripensare la città in relazione alla sua urbanità.

 

Carenza di case, un falso problema

Nel contesto latinoamericano – Cile (politiche abitative neoliberiste del Ministero dell’Edilizia abitativa e dell’urbanistica negli anni novanta), Messico (programma di promozione e deregolamentazione dell’edilizia abitativa, con emendamenti alle leggi Infonavit nel 1992), Brasile (programma “Minha Casa Minha Vida”, 2009) – sono stati effettivamente raggiunti numeri senza precedenti in termini di costruzione di unità abitative. In Brasile, stando ai numeri forniti dal Ministero, oltre 6 milioni di nuove unità sono state realizzate. L’approccio quantitativo scelto per affrontare il deficit abitativo ha accresciuto la dinamica massificazione-antiurbanità a un nuovo livello.

Interpretabile come case senza città, il processo ha prodotto innumerevoli complessi abitativi scollegati dal tessuto urbano e privi di accesso ad aree commerciali, servizi pubblici o privati, caratterizzati così da monofunzionalità, eccessiva standardizzazione e scarsa qualità architettonica. Questi progetti hanno fatto poco per raggiungere i segmenti più vulnerabili della popolazione, che non hanno accesso a forme di occupazione regolare, al sistema bancario e, di conseguenza, alla possibilità di partecipare ai programmi di finanziamento. Di conseguenza, l’autocostruzione continua a essere la soluzione per una larga parte della popolazione.

L’assenza della produzione di un ambiente urbano qualificato è un punto condiviso tra gli studiosi sull’argomento. Dal sud al nord del mondo c’è una crescente consapevolezza che la questione del deficit immobiliare, così come è comunemente intesa, travisa il vero problema. Anche il pensiero architettonico sembra non essere riuscito a offrire adeguate alternative critiche per affrontare questo problema e i prodotti immobiliari precari derivanti da questa iper-mercificazione continuano a perpetuare una geografia sociale ineguale. Questa logica è trasversale e si applica a tutti i prodotti immobiliari in vari strati sociali.

Il mondo alla rovescia e il progetto per rovesciarlo (alla Lefebvre)

In questo modus operandi, con l’architettura a seguire una formula economica, il progetto ignora i potenziali socio-culturali portando a una serie di errori spaziali. In risposta a questo approccio ricorrente in America Latina, l’auspicio è di poter “rivoltare il mondo” (come Henri Lefebvre sembra suggerire in La rivoluzione urbana, 1970). L’autore sostiene che le priorità sono invertite, in quanto si confonde la scala con la complessità, e propone d’iniziare con il “piccolo” problema dell’abitare come chiave per sbloccare l’orizzonte delle possibilità per il “grande” problema dell’urbano. Ciò implica la formulazione di nuovi immaginari socio-spaziali, l’ampliamento della comprensione del problema abitativo e lo spostamento dell’attenzione dalla semplice unità abitativa al concetto più ampio di abitare, che integra la pratica creativa e quotidiana della vita.

Da questa prospettiva, l’intelligenza architettonica precederebbe la modellazione politica ed economica del problema, mirando a creare quadri formali, programmatici e relazionali in grado di modellare lo spazio per supportare altre forme di organizzazione sociale. Essa potrebbe considerare aspetti come la leadership delle donne (capofamiglia nei segmenti più vulnerabili della società), diverse forme di organizzazione familiare ed emotiva ed esperienze comunitarie. Proprio come alcune iniziative in Europa (ad esempio le cooperative) hanno guadagnato visibilità dopo la crisi del 2008, in Brasile la revisione storica e l’analisi attuale indicano alternative disciplinari solo singolari. Sono progetti che offrono strategie che, contrastando con il modello predominante, evidenziano i problemi e suggeriscono soluzioni. La sfida è quella di utilizzare questa prospettiva per identificare opportunità di azione critica e sviluppare contenuti che guidino ad una pratica rinnovata nel campo dell’architettura e dell’urbanistica.

Esempi brasiliani d’intelligenza architettonica alternativa

Quando si progettano nuove unità abitative in aree a rischio all’interno di tessuti urbani autocostruiti, pochi progetti riescono a incorporare le dinamiche socio-spaziali dei territori, promuovendone al contempo la trasformazione. Un esempio notevole di questo approccio è Parque Novo Santo Amaro V a San Paolo (Vigliecca Associate Architects, 2012), dove viene proposta un’urbanità embrionale per le aree interessate. Questi progetti non si presentano come un’enclave, né suggeriscono l’irrealistica sostituzione totale del tessuto autocostruito con una nuova logica urbana.

Le esperienze di occupazioni coordinate dai movimenti sociali organizzati attorno alla lotta per l’edilizia abitativa sono esempi ricorrenti in America Latina. Nella città di San Paolo sono riusciti a produrre oltre 15.000 unità abitative, reagendo alla mancanza d’investimenti e politiche pubbliche. Alcuni di questi progetti hanno generato esperienze uniche di socializzazione e pratiche spaziali che attraversano livelli individuali e collettivi.

Il sistema edificato a gradoni adottato nel progetto Jardim São Francisco Setor 8 a San Paolo (Demetre Anastassakis/Co.opera.ativa, 1989) esemplifica anche la corrispondenza tra esigenze ambientali e sociali. Seguendo la topografia originaria, l’intervento evita l’impermeabilizzazione del suolo, preservando i corsi d’acqua naturali e i sistemi di drenaggio, creando un livello del terreno dinamico con una sequenza di percorsi pedonali permeabili, scale e portali che attraversano i blocchi formati dal raggruppamento di unità abitative attorno ai patii.

Questa combinazione di un sistema di unità abitative e di un sistema di spazi aperti può essere trovata anche nella Comuna Urbana Dom Hélder Câmara a Jandira, (Usina, 2012) e differisce radicalmente dalle forme condominiali che definiscono egemonicamente le relazioni tra abitanti e città. Un altro aspetto alternativo che emerge in entrambi i casi è la preminenza delle donne nel processo partecipativo che definisce la spazialità progettata.

Questo sguardo tende a rivelare l’assenza di una posizione disciplinare critica e radicale all’interno del neoliberismo. Di conseguenza, una pratica architettonica relazionale e dialettica, nutrita da immaginari politico-spaziali, sembra presentarsi come un’opportunità per ribaltare la prospettiva, anche e soprattutto rispetto alla progettazione di spazi residenziali adeguati.

Immagine di copertina: Parque Novo Santo Amaro V. Dal sito web dello studio Vigliecca e Associados 

 

Gli autori dell’articolo sono parte del gruppo di ricerca PC3 – Critical Thinking and Contemporary City, fondato da Leandro Medrano e Luiz Recamán presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di San Paolo. In particolare, Mariana Wilderom cura il progetto di ricerca Identification and Analysis of Counter-Hegemonic Projects e Marcos L. Rosa Collective Housing, Urban Form, and Evaluation.

Autori

  • Marcos L. Rosa

    Ricercatore post-dottorato presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di San Paolo. Laureato in Architettura e Urbanistica, ha conseguito un dottorato di ricerca in Pianificazione regionale e Progettazione urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università Tecnica di Monaco. Fa parte del PC3 Research Group dal 2020 e di REDIVISS (Ibero-American Network of Sustainable Social Housing) dal 2023. La sua ricerca include un’indagine teorico-critica dell’urbanità contemporanea. È stato curatore della XI Biennale di Architettura di San Paolo (2017-18) ed è membro del comitato curatoriale dell’Internationale Bauaustellung Stuttgart IBA’27

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  • Mariana Wilderom

    Docente del Graduate Program presso la São Judas Tadeu University e ricercatrice post-dottorato presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di San Paolo. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia e fondamenti dell’architettura e dell’urbanistica e un master. oltre alla laurea triennale in Architettura e Urbanistica presso la FAUUSP. È stata ricercatrice ospite presso la TU Delft. Fa parte del PC3 Research Group dal 2015 e di REDIVISS (Ibero-American Network of Sustainable Social Housing) dal 2023. La sua ricerca si concentra su architettura contemporanea e città in America Latina

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