Architettura del corpo, disciplina delle relazioni
Parlare di architette o architettrici oggi richiede più prospettive: per parlare di linguaggio, diritti, minoranze e femminismo con la sua storia
Published 27 novembre 2024 – © riproduzione riservata
Trattare la professione al femminile, parlare di architette o architettrici e delle loro opere non è per nulla facile, poiché si rischia di scivolare nel banale, nel già detto, in affermazioni e testi che possono sembrare consueti, forse addirittura superflui. Pare dunque importante l’atteggiamento con cui affrontare la tematica, che ci appare immensa e che per questo necessita di molteplici prospettive e punti di vista. In questo periodo si parla di prospettiva di genere con lo scopo di poter guardare al mondo precostituito da una visione differente, una visione che per un lungo periodo è stata minoritaria o almeno in tale modo è stata percepita e studiata.
La visione non è definita da una prospettiva centrale, o almeno non solo, bensì da una laterale, o meglio accidentale, perché trattare questo complesso tema significa occuparsi – probabilmente anche solo scrutandone la superficie – di linguaggio, di diritti, di minoranze e di femminismo e della sua storia, per elencare solo qualche aspetto significativo.
Per tale motivo, per il fatto che è necessario fare riferimento ad ambiti differenti assumendo un atteggiamento transdisciplinare, questa riflessione vuole iniziare da un testo di una delle scrittrici attualmente più riconosciute e lette.
Un riconoscimento troppo faticoso
La letteratura racconta il mondo in cui siamo immersi e lo fa attraverso il linguaggio con lo scopo di arrivare a più persone. Rachel Cusk, in Onori (2020), ultimo libro della sua trilogia, ci parla di riconoscimento, di opportunità e soprattutto di corpo, il medium attraverso cui abitiamo i luoghi e le città, occupiamo e misuriamo gli spazi. In un brano di conversazione tratta, prendendo come esempio un’artista, del tema del riconoscimento in rapporto al proprio operare («Louise Bourgeois, per esempio, aveva fatto furore nei suoi ultimi anni, quando le era stato finalmente concesso di uscire allo scoperto ed essere vista […]. Si era tentate di pensare […] che il talento di Bourgeois traesse alimento dall’anonimato delle sue esperienze; in altre parole, che se fosse stata apprezzata quando era una giovane artista, forse non si sarebbe soffermata sugli ignominiosi misteri della sua vita di donna, e avrebbe invece partecipato a eventi mondani e posato per le copertine di riviste come tutti gli altri») e del peso e compito di occuparsi di temi femminili («È comprensibile, ha detto, che una donna di talento non voglia vedersi relegata a temi femminili e cerchi la libertà impegnandosi nel mondo su altre basi»).
È vero che Cusk prende come esempio un’artista e un campo con meno vincoli, dove il linguaggio può essere più diretto e teso a esprimere se stesse e dove la funzione sembra essere un’istanza secondaria, eppure in poche righe riassume la fatica del riconoscimento che pare arrivare dopo aver molto dimostrato.
Corpi, relazioni e spazi
Il tema del corpo è essenziale. Lo delinea bene Daniela Brogi nel suo Lo spazio delle donne (2022): «La nostra vita è fatta di situazioni in cui le parole, le azioni, gli sguardi e i corpi esistono perché occupano certi spazi. Lo spazio infatti è campo di espressione e verifica delle identità. Se questo è vero in generale, per le donne vale anche di più, perché lo spazio in molti casi ha funzionato come cifra di un destino imposto. Palazzi nascosti, case dimenticate, camere, giardini segreti, stanze con finestre, cucine, soffitte, collegi, stalle, celle di monasteri, salottini e ogni altra forma di luogo chiuso, separato dal mondo di fuori, sono stati, per secoli, gli ambienti dove spesso hanno dovuto trascorrere il tempo le donne, insieme ad altre donne, oppure da sole, in compagnia di storie, quando avevano il lusso della fantasia, e di ruoli, difetti e vizi spesso inventati da altri. Non è un caso, del resto, che là dove prendono forma punti di vista e voci femminili, in letteratura come nelle altre arti, ecco che molte volte arrivano metafore e racconti visuali che ci chiedono di immaginare le esistenze altrui proprio a partire dallo spazio».
Noi parliamo di donne che quegli spazi li hanno progettati e vogliono progettarli. Prendiamo ad esempio in considerazione “Cosmowomen” (2021), il manifesto di Izaskun Chinchilla in cui s’introduce l’espressione “capitale femminile” per sottolineare il ruolo delle donne come creatrici di relazioni, così da spostare l’attenzione dalla funzione delle architetture alle relazioni tra le architetture, ai loro rapporti, utilizzando questo termine in chiave geometrica e architettonica, non dimenticando gli aspetti sociali e antropologici che ci aprono la strada a paralleli con i rapporti interpersonali e con le relazioni che tessiamo nella nostra vita. Nel suo manifesto, al punto 5, Chinchilla ci invita a rappresentare sempre nei progetti il corpo degli abitanti, invitandoci a ricordare che «Il loro benessere è il tuo obiettivo fondamentale. Descrivi al meglio la loro diversità e multidimensionalità. Rifiuta gli stereotipi binari o quelli che semplificano le loro reazioni […]».
A questo punto è evidente che non è necessario, e certamente non è sufficiente, fermarsi a individuare donne che si siano occupate di fare bene ciò che hanno fatto altri uomini. La questione non è imitare dei modelli, ma individuare e seguire una propria linea autonoma di azione e, di conseguenza, di progetto.
La storica dell’architettura Beatriz Colomina, che offre un taglio politico-sociale dell’architettura, nel suo contributo The Split Wall: Domestic Voyeurism, all’interno del testo Sexuality & Space (1992), analizza le rappresentazioni (disegni e foto) dei progetti di abitazioni di Adolf Loos e di Le Corbusier riflettendo sul modo in cui le case siano state fotografate, così da evidenziare come la loro progettazione possa essere assimilabile a set teatrali per i drammi (e le commedie) della vita quotidiana e come dunque possa essere visto come un sistema di rappresentazione.
Come percepiamo veramente lo spazio nel quale abitiamo? Possiamo rilevare una contraddizione tra l’idea di uno spazio perfetto e la realtà della vita domestica? Secondo Colomina, nel progetto il corpo della donna è sempre posto in posizione nascosta e protetta, oggetto dello sguardo maschile; le abitazioni possono essere sistemi di oppressione e segregazione, non solo per le donne, ma anche per tutte le persone più fragili o al di fuori di una norma. La riflessione è più estesa, non riguarda esclusivamente la prospettiva di come siamo guardati, ma anche di come percepiamo il mondo quando ci troviamo in una condizione di fragilità o al di fuori della norma.
È sempre Colomina, nella mostra “Sick Architecture” (2022) curata al CIVA di Bruxelles sul rapporto tra architettura e malattia, che mette in luce come la figura o l’idea di “uomo universale” a cui si rivolge l’architettura non esista, poiché siamo tutti corpi fragili.
Per la città, uno sguardo più ampio
Di fronte a città che sono state progettate e pianificate pensando al genere maschile o in maniera neutra è dunque necessario mettere in campo uno sguardo più ampio (forse femminista?) che tenga conto di tutte quelle soggettività e quelle minoranze che sono state poco considerate o non comprese nel progetto della città funzionalista. È possibile dunque far tornare ciò che sembrava marginale al centro del progetto?
June Jordan ci ha provato nel 1964 con Richard Buckminster Fuller pensando a un piano per la città di Harlem, dal titolo “Skyrise for Harlem”, che nel 1970 le ha fatto vincere il Rome Fellowship Prize in Environmental Design per la progettazione ambientale. Jordan non è architetta, ma una poeta che mette al servizio della collettività le sue competenze e la propria autobiografia per cambiare la società e ottenere uguaglianza di genere e giustizia razziale, lavorando sul progetto degli alloggi e sull’economia dell’architettura.
Tra le altre figure che hanno affrontato questi temi, Jane Jacobs tratta le città come un’opera umanistica, così che esse diventino ecosistemi viventi in cui ogni parte è legata all’altra appunto tramite relazioni. La pianificazione delle città è comunitaria e parte dal basso, mettendo in campo le esperienze e le abitudini all’abitare dei cittadini.
In Italia negli anni ottanta del Novecento l’architetto Marta Lonzi scrive nel suo L’architetto fuori di sé: «Leggo […] la grande assenza delle donne dall’architettura non come una mancanza da colmare, né come diversità da esaltare, bensì come espressione di un’impossibilità di aderire a una prassi progettuale per lei estranea […]. Per me è prioritario prendere coscienza del processo attraverso cui elaboro il progetto, in un ascolto attento dell’altro, in rapporto con l’altro. I rapporti danno coscienza dell’umanità, il femminismo è un incontro di coscienze verso una nuova consapevolezza, un diverso senso della storia».
Negli ultimi anni si stanno facendo molti passi per bilanciare il tema, con mostre e convegni dedicati alle donne architetto. Questo ci fa pensare che forse i tempi sono maturi per portare la riflessione sulla materia del costruito, andare oltre le teorie e scovare le professioniste che sul campo lavorano alla costruzione di edifici, spazi, città, di luoghi di relazione, fornendoci una prospettiva più ampia e inclusiva.
Componente del Comitato Scientifico di IN/Arch, responsabile del percorso di formazione Storia e Critica per il CTF, componente della Commissione parità di genere sempre per l’Ordine degli Architetti di Roma e provincia. Già Segretaria di IN/Arch Lazio e di DO.CO.MO.MO Italia, è esperta di pratiche urbane e ricercatrice indipendente specializzata nel patrimonio culturale. Si occupa di temi del moderno ed è autrice di contributi, anche video, sulle trasformazioni urbane e sulla valorizzazione dei beni culturali. Ha lavorato come ricercatrice al CNR e all’Università Sapienza di Roma sui temi dei centri storici minori e della partecipazione come governance e strategia innovativa di valorizzazione. Ha collaborato in Cina con WHITRAP UNESCO per l’applicazione del Paesaggio Storico Urbano. Dall’esperienza sul campo ha ideato e curato il progetto “Passeggiate fuori porta” con CNR e IN/Arch Lazio. È dottore di ricerca e specializzata in “Restauro dei monumenti architettonici” all’Università Sapienza, dove ha insegnato Restauro e Progettazione architettonica e dove è stata titolare del corso di Teoria e storia del design.