Non solo infrastruttura d’attraversamento: occorre una grande impresa urbana
Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sugli errori passati e sulla necessità di pensare un’unica città a cavallo dello Stretto
Published 30 settembre 2024 – © riproduzione riservata
I motivi, all’altezza della costruzione di un ponte sullo Stretto, in realtà non sono mai stati individuati, spiegati e messi a disposizione di una scelta lucida, non emotiva e non ideologica, in un senso e nell’altro. Il problema, già presente al principio della vicenda (anni settanta), è continuato lungo la traiettoria intrapresa dal progetto. Le responsabilità iniziali non sono dovute a ignoranza o malafede, mentre quelle poi susseguite, al contrario, sono un intreccio delle due.
Il principale errore di valutazione iniziale, è aver sopravvalutato le reali capacità implicite, alle due parti geografiche in oggetto (Calabria e Sicilia) di scegliere di confluire, demograficamente e territorialmente, in un’area metropolitana reale, con un solo governo, che permettesse alle due parti di non stare con due piedi potenziali in una sola scarpa territoriale reale. Errore, ad esempio, non commesso da Ataturk, il quale nel momento in cui scelse di dare un destino nuovo a Costantinopoli, trasformandola da città continentale a bicontinentale, non si affidò alle dinamiche implicite, spontanee, ma spinse verso il cambiamento, con azioni determinate, esplicite, autoritarie. Intenzione già segnalata dalla decisione di cambiare nome a una città che non ne aveva uno qualsiasi, ribattezzandola Istanbul. Per capirci: è come se domani decidessimo di cambiare nome a Venezia.
La politica italiana degli anni settanta, al contrario, dopo aver elaborato il Progetto Ottanta (ultimo reale piano nazionale di sviluppo pluriennale prima dell’attuale PNRR), s’illuse ingenuamente che i normali strumenti della democrazia avrebbero spinto a rendere esplicito ciò che era implicito nell’area dello Stretto: la possibilità di adire a una nuova città, con una sostanza demografica e territoriale concorrenziale con quelle del Mediterraneo. Il secondo errore di valutazione, fu immaginare, a quel punto, un’infrastruttura di attraversamento, che invece di avere le dimensioni e le caratteristiche di una strada urbana (ovviamente, come tutte le grandi strade urbane, anche usufruibile da chi attraversa una città) fu immaginata come un’infrastruttura esclusivamente trasportistica, tanto da prevedere il passaggio non solo di veicoli su gomma, ma anche su rotaia. Le principali risposte tecniche e progettuali al primo e unico concorso internazionale erano, quindi, progetti in cui la questione ferroviaria non soltanto dimensionava il ponte secondo misure sino a quel tempo mai viste e quasi inaudite, ma apriva anche nuovi fronti infrastrutturali. Fronti non meno importanti, perché servono a far salire e poi scendere i treni che corrono su una linea posta al livello del mare, sia in Calabria e sia in Sicilia, sull’impalcato. Da un ponte, quindi, si era passati, senza nemmeno volerlo realmente, a un ridisegno infrastrutturale che da Gioia Tauro, sino a oltre Messina, avrebbe interessato molto di più di uno specchio d’acqua che separa la Sicilia dalla Calabria.
Una volta finito il concorso e riordinate le idee, per dare seguito alla volontà di realizzare il ponte, si tenne in piedi la Società Stretto di Messina, anche se ormai era chiaro che il topolino aveva partorito una montagna difficilmente scalabile. Da quel momento in poi, la questione del ponte sullo Stretto, ricorre sempre, in un modo o in un altro, o all’inizio di una legislatura o alla fine. Il solo tentativo, tra il reale e il surreale, fu portato avanti da uno dei governi Berlusconi che, dopo aver commissionato un imponente progetto fintamente esecutivo, inaugurò il cantiere con un’opera provvisionale, che al momento è la sola cosa esistente. Colpa di Berlusconi? A quel tempo, responsabilità precise si riscontravano soprattutto in sede europea che, senza comprendere di cosa si stesse parlando, inserì questa infrastruttura nei famosi corridoi di trasporto europei, equiparandolo ad altre opere (compreso l’oramai “mitico” tunnel della Val di Susa) e sostenendolo con analisi economiche e sociali direttamente legate alla questione dei trasporti: della mobilità delle merci e dei cittadini. Mentre negli anni settanta questo errore fu dovuto alla difficoltà d’immaginare le tendenze del futuro (errore possibile in ogni progetto), in questo secondo caso dipese da un misto di miopia, bassi interessi, scarsa capacità della politica nazionale ed europea.
Mentre s’ipotizzava una realtà immaginata, infatti, il sistema dei trasporti nel Mediterraneo risolveva i problemi dentro una realtà esistente, e ridisegnava la maniera di muovere le merci via mare, escludendo per scelta e non per necessità la strada ferrata, perché delle navi progettate a misura del problema e un nuovo sistema di consegna e ricezione delle merci nei porti sono più economiche e funzionali. Mentre la Società dello Stretto pagava consulenti che partorivano studi sulla necessità del ponte per le merci, i produttori, gli spedizionieri e gli armatori risolvevano il problema con navi che, spostando una massa critica di camion e container senza paragoni con il treno, rendevano la discussione obsoleta e senza senso reale. La realtà è che più ci si allontana dall’area dello Stretto più diventa residuale, in termini economici, la velocità con cui lo si attraversa, mentre è rilevante il costo totale dell’intero percorso che devono compiere le merci, ad esempio, dalla Sicilia a Genova, a Civitavecchia, a Napoli. La movimentazione delle merci, la mobilità nazionale ed europea, la saldatura continentale dell’isola come condizione di sviluppo meridionale e nazionale non sono motivi commisurati all’opera da realizzare: per essi, il tema dell’attraversamento stabile dello Stretto è secondario.
Ancora oggi, al contrario, esiste un solo e unico motivo per costruire una strada sospesa sullo Stretto: la realizzazione di una nuova città a cavallo delle due sponde che si ponga l’obiettivo di assumere un ruolo entro la fine del secolo, che la ponga sullo stesso livello di quelle che si affacciano sui lati Est e Sud del Mediterraneo. Reggio Calabria e Messina devono convincersi che il restare ambedue con due piedi in una sola scarpa territoriale le condanna a un processo di marginalizzazione e perifericità, che in fondo già vivono distintamente. Un processo iniziato lentamente, quanto inesorabilmente, da diversi secoli. Reggio e Messina, la Sicilia e la Calabria, non hanno bisogno di un ponte, bensì di una grande impresa urbana di lungo periodo, in rapporto alla quale ogni cosa che serve si dovrà fare, compresa una strada urbana sospesa sullo Stretto a forma di ponte. Non per il valore in sé, ma per quello del progetto sociale e politico prescelto.
I motivi per ogni cosa non sono mai belli da verificare perché hanno sempre un costo, impongono sempre rischi e nuove maniere di vivere. Di fronte ad ogni scelta, il problema è sapersi concedere un po’ del meglio e un po’ di più.
Architetto, laureatosi presso la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria, dove è ricercatore dal 1990. Essendo siciliano di nascita, e pugliese e calabrese per adozione, altro non è, quindi, che Federiciano: unico titolo sicuro che può certificare