Un “Piano Mattei”, per il sud e per l’Africa
L’Italia dev’essere protagonista nel Mediterraneo, elemento nodale di un corridoio euro-africano che passerebbe per il ponte di Messina
Published 29 aprile 2023 – © riproduzione riservata
Ciò che colpisce del dibattito attuale sul ponte di Messina è il modo elementare delle questioni poste, ancora prossimo, dopo più decenni di discussioni, al grado zero della consapevolezza delle realtà al contorno: un contorno, o ambito problematico, che non è solo locale, e nemmeno solo nazionale, ma globale.
Porre il dibattito nei termini di “ponte-no / ponte-sì” è non solo riduttivo ma deviante: il trattare la questione come un referendum, o come una contesa tra fazioni, è indice dello stato infimo cui si è ridotta la capacità d’intendere e orientare di una quota consistentissima della classe dirigente nazionale, intellettuale e politica, a tutti i livelli di responsabilità e comunicazione. Pochi hanno compreso che la questione è di quelle di alta valenza strategica, che investono di petto l’interesse nazionale italiano. Un interesse di cui si è smesso di parlare ormai da ottant’anni, quasi si trattasse di un tabù; un ambito di questioni che è stato riposto in un cassetto e lì abbandonato: l’ambito di una strategia nazionale di sistema consapevole della necessità d’individuare le mete di tutto un Paese, capace di programmarne le direzioni e i passi secondo priorità da contemplare in ambito geopolitico, e di definire gerarchie di attori e attuatori, nonché compiti e tempi di esecuzione. Una visione dirigistica? Direi di no: piuttosto la presa d’atto che, dopo l’abbandono dell’ultimo tentativo programmatorio, il Piano ’80, si è giunti in Italia a uno squilibrio ormai non più sostenibile tra il basso e l’alto, con la prevalenza di spinte centrifughe e localistiche che minano la solidità e la salute dell’intero Paese: concentrate in una visione lenticolare, come da microscopio, esse incidono negativamente sulla capacità di azioni corali, direi grandangolari, del Paese, sia che si tratti di considerare un territorio e di agirvi, sia che si abbia a che fare con ambiti di competenze specifiche, che si pretende di far prevalere in nome di un rivendicato “interesse comune”.
La bontà del prevalere del rapporto dal basso verso l’alto, malinteso non come diritto fecondo a essere ascoltati, ma come diritto prevalente del particolare nei confronti del generale, è divenuto in Italia un topos quasi adamantino. Gli esiti di tale interpretazione sono stati però nefasti e rischiano di esserlo ancora di più, come bene hanno mostrato, durante la pandemia, gli affanni delle diverse gestioni delle Sanità regionali, e come ancor peggio si prospetta con l’introduzione delle cosiddette autonomie differenziate.
Occorre dirlo: tutto si tiene, e la debolezza relativa dell’Italia in ogni settore di attività e intraprese, e del problematico suo credito nell’ambito delle relazioni internazionali, consiste nella mancata presa di coscienza del proprio essere un Paese proteso per tre quarti nel Mediterraneo: un mare ormai centralissimo, nel quale occorrerebbe essere presenti da protagonisti, per trarre dalla propria collocazione, e dalle contingenze di questa, dei vantaggi quanto più generali, che l’intera compagine nazionale potrebbe condividere. Esiste tale consapevolezza? Solo in minima parte, e da tale parzialità derivano la mancanza di una strategia e l’assenza di un piano capaci di tradurre in atto le potenzialità trascurate del Paese. Uno degli innumerevoli indizi dell’inettitudine strategica italiana ci si è palesato proprio su questa testata, in un’illuminante intervista a Fabrizio Barca, già ministro per la Coesione territoriale: “Qual è il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo”, gli fu chiesto, “e come dobbiamo confrontarci con questo mondo che si sta agitando?”. “Non credo che la proiezione dell’Italia sia nel Mediterraneo”, egli rispose, […] “il Mediterraneo è complicato, destabilizzato, autoritario”: tagliente come una rasoiata, ma di quelle autoinferte.
Io do per scontato che il “ponte del Mediterraneo” si possa fare, perché le attestazioni della sua fattibilità sono state espresse al massimo livello da società di validazione indipendenti, di calibro internazionale. Non è invece scontato, per quanto detto fin qui, che si sappia davvero perché farlo, e che dunque lo si voglia fare.
Perché fare il ponte?
Perché esso costituisce un atout formidabile che l’Italia ha ancora nella manica, capace di più valenze assieme geopolitiche ed economiche, in grado di accendere nel Paese una seconda locomotiva da affiancare a quella arrancante padano-veneta, ormai priva di margini di espansione e in sofferenza da decenni, come mostrano gli incrementi minimali del suo PIL nel lungo periodo.
Come farebbe il ponte a operare tale accensione? Lo farebbe consentendo alla Sicilia, alla Calabria e a tutto il Sud di essere luogo di cattura, di lavorazione e smistamento locale e internazionale di quote non secondarie del traffico merci della rotta meso-mediterranea, che da sola vale un quarto del traffico commerciale marittimo mondiale: una rotta che passa d’accosto alla Sicilia senza procurare al Sud nessun beneficio, dato che in un posto impedito di esportare velocemente e in quantità nessun sano di mente sbarca merci né investe per dotarle di valore aggiunto. Mentre ciò sarebbe possibile in presenza del ponte e di un connesso sistema portuale e ferroviario veloce. Con una doppia valenza d’azione: non solo nel profittare della prossimità della rotta tesa tra Shanghai e Rotterdam, ma anche nello spingere e attrarre relazioni economiche e politiche col continente africano (a soli 140 km dalla Sicilia), che tutti gli indicatori economici e demografici indicano come quello del maggiore sviluppo a venire.
Un corridoio euro-africano (Marcello Panzarella, Movin’ to the Future. Geopolitica e infrastrutture, Visioni da Sud, edizioni Arianna, Geraci Siculo 2022), che passasse per il ponte di Messina e che per porti siciliani e tunisini si spingesse fino all’Africa sub-sahariana, sarebbe anche un modo di “aiutarli a casa loro” e di sottrarre le soglie di casa nostra, per quanto ancora possibile, all’influenza soffocante dell’espansione imperiale cinese. Questo sì, sarebbe il senso di un vero “Piano Mattei”, da attuare in termini di rispettosa parità. Vorrà la politica, italiana ed europea, coglierne il senso e attuarne il concetto?
Nato a Cefalù (Palermo) nel 1949, è laureato in Architettura (1973) con Vittorio Gregotti. Già presidente del Corso di Laurea Magistrale in Architettura di Palermo e docente dell’International Doctorate of Research in Architecture “Villard D’Honnecourt”, Università IUAV di Venezia, nonché Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica, Palermo. La sua ricerca ha riguardato il progetto per i centri minori del Sud, il progetto per la “Moschea d’Occidente”, il progetto urbano in relazione con le infrastrutture dei trasporti, la progettazione strategica di ambito geopolitico.