I musei: luoghi multipolari e laboratori per la Città aperta
Collezioni universitarie e artistiche abitano spazi rigenerati per la ricerca, cultura e sperimentazione: breve tour tra i nuovi allestimenti e quelli in arrivo
Published 17 dicembre 2024 – © riproduzione riservata
ROMA. Da mesi, si cammina in un sommovimento capillare, di cui alcune cellule sono musei: vibranti particelle in un insieme di campi in espansione. Sono luoghi multipolari che interconnettono relazioni dentro, e oltre, il corpo statuario e convulso della città, dove si riafferma, in un ampio spettro d’interpretazione, lo spazio primigenio del museo: la galleria di studio.
Invasi comunicanti: progetti per il Polo museale dell’Università Sapienza
Luogo intermedio tra esposizione e ricerca, la galleria di studio è la chiave unificante le attività di sperimentazione progettuale, condotte dai docenti Andrea Grimaldi e Paola Guarini, con ricerche universitarie finanziate dall’ateneo e coinvolgenti anche il dottorato in Architettura teorie e progetto del Dipartimento di Architettura e progetto dell’Università Sapienza, con il Polo museale di Sapienza, di 19 collezioni universitarie, diretto da Claudia Carlucci. Un programma accademico che riconsidera la ricerca come fulcro vitale tra museo e università e, viceversa, implica l’architettura degli interni nella museografia.
Ne è un primo tassello la galleria progettata al piano terra della Facoltà di Architettura a Valle Giulia da Grimaldi e inaugurata nel 2021 con la mostra “100 anni di Scuola di Architettura alla Sapienza di Roma”. L’allestimento è emblematico per comprendere il museo universitario come “luogo della conservazione e conoscenza delle esperienze e documentazioni passate, a cui si associa l’idea della comunicazione e divulgazione delle attività della ricerca”: un détournement altalenante tra museo e università, ritmato dagli invasi di lucernari multimediali capovolti, macchine sceniche da cui appaiono stanze effimere, proiezioni stratificate, in un sistema minimale preciso e modulare disegnato per mostrare l’architettura, tra esposizione e convivium.
Ridisegnare i luoghi dell’università innestando la ricerca accademica a quella museale, è anche l’occasione per riconsiderare la galleria di studio del museo, in origine riservata all’osservazione specialistica di oggetti e documenti, come luogo intermedio di dialogo tra collezioni, depositi, mondo accademico e pubblico museale.
In questa visione prende avvio il MUST, Museo di scienze della Terra, che riunifica tre importanti collezioni di mineralogia, geologia e paleontologia ospitate all’interno dell’edificio progettato da Giovanni Michelucci per la città universitaria, con il curatore Michele Macrì e il progetto di Matteo Clemente (mtstudio), attualmente docente a Roma. Un articolato percorso, di cui è già aperta la sala per le esposizioni temporanee al piano terra, ed è in fase di aggiornamento strutturale per l’accessibilità for all ai 4 piani in cui si svolge l’ordinamento del museo, cronologico e ascensionale. Di queste varianti museografiche del “varco” tra museo e università, la sintesi è nella grande porta progettata da Grimaldi con l’assegnista Valeria Ottavino per il Museo di arte classica, nella sala dell’Odeion come “dispositivo di compartimentazione, varco fenomenico tra spazi contigui, tra i gessi inerenti la statuaria greca e romana e il corpo studente”.
Innesti labirintici e reticoli nodali della cura: il Museo laboratorio della mente
Tra febbraio e marzo aprirà il primo piano del Museo laboratorio della mente, una seconda fase del progetto ideato e diretto da Paolo Rosa e Fabio Cirifino, soci fondatori di Studio Azzurro, con l’architetto Giuseppe Carmosino per gli aspetti tecnici e allestitivi esecutivi. L’intervento arriva a dieci anni dall’apertura del museolab nel complesso dell’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà, di proprietà dell’ASL Roma 1, già oggetto di valorizzazione a partire dagli anni ’80, comprensivo della Biblioteca scientifica Alberto Cencelli (9.600 volumi) e dell’archivio, su cui è incentrato il piano terra dell’edificio, uno dei 43 fabbricati del “manicomio villaggio” completato nel 1914 in un’area di 150 ettari a Monte Mario.
In continuità con il piano terra, che acquisisce un ulteriore senso quale incipit di un itinerario più esteso e profondo, il primo piano espande l’esperienza cognitiva e sensoriale come campo di ricerca di longue durée di Studio Azzurro per una museografia esperienziale “situazionista” che interroga la società, le sue istanze e le sue fragilità correnti. A fare da legante tra i due livelli è il dialogo come struttura laboratoriale, al contempo relazionale e introspettiva: 70 interviste, restituite in diversi format (frasi enucleate nell’itinerario immersivo e audio integrali nell’archivio) rappresentano una serie di problematiche emergenti nei centri/ambulatori/consultori/carceri psichiatrici della municipalità con il racconto della messa in rete della cura mentale, tratteggiando nel contempo una situazione di malessere attuale complessa, che si apre in un tavolo-database interattivo per chi vuole approfondire e fare ricerca ascoltando tutte le testimonianze.
La museografia di Studio Azzurro si diffonde nell’edificio come superficie-membrana interagente tra contenuti immateriali, pubblico e architettura in quanto eterotopia. L’architettura del manicomio, con i suoi vuoti allusivi, è il palinsesto narrativo dove riscrivere spazi mentali che s’infittiscono nel labirinto delle pareti sonore, per ascoltare il proprio corpo nell’immedesimarsi nel disorientamento che accomuna le storie fuoriuscite dai ritratti, appesi alle pareti del primo piano, di coloro che hanno attraversato questi luoghi. E, scavalcando mentalmente “il muro” dell’ex manicomio, ci si ritrova in una mappa dove l’architettura arretra nel tempo, disvelando luoghi seminascosti ma ancora presenti nelle pieghe della città cinquecentesca, quando quelle stanze di solitudini e segregazioni erano addirittura denominate “stalle”.
Con il potenziamento del museo-laboratorio Studio Azzurro interfaccia un sistema nodale tra l’architettura, essa stessa documento storico e attivatore di memorie, ciò che ha conservato e sprigionato, e l’insieme di relazioni che, attraverso l’apparato multimediale, riconnette le origini recondite del manicomio come micro-spazio separato, sparso e più o meno occultato nella città, al progetto istituzionale del villaggio manicomaniale di Monte Mario, con le aree agricole a supporto delle sue economie autarchiche, fino alla sua dismissione con la svolta impressa dalla Legge Basaglia, e la cura oggi, di cui il museo-laboratorio è diventato caposaldo pubblico di un reticolo che innesta la cura ambulatoriale alla cura culturale, ri-descrivendo continuamente il tessuto sociale urbano.
Fringe benefit tra rovine industriali e arte contemporanea: la Fondazione D’ARC
A immettere nella Fondazione D’ARC, inaugurata lo scorso 26 ottobre, è una striscia di natura e urbanità ancora selvatica, di pasoliniana memoria, al limitare della zona Tiburtina, in via dei Cluniacensi 128. Qui il progetto di Fabrizio Capolei (3C+t Capolei Cavalli architetti associati), ridisegna per la coppia di collezionisti Giovanni e Clara Floridi un’area ex industriale di 6.000 mq, abbandonata da vent’anni, convertendola in un centro per l’arte contemporanea. La collezione si apre al pubblico nell’ex capannone adibito a manifattura del cemento e ora rigenerato a galleria di esposizione di 154 opere, affiancato perpendicolarmente da un secondo hangar che, in continuum con la funzione iniziale di mensa e officina, è ricomposto come bistrot e falegnameria per la Fondazione. A questi due corpi di fabbrica si agganciano due annessioni preesistenti riconvertite in residenza artistica e ufficio amministrativo e curatoriale.
Il progetto di architettura ha un imprinting quasi tipografico, dichiarato nelle bande diagonali grigio-bianche che destrutturano la “casa della direzione”, e nella campitura orizzontale della cortina di cemento, materia grigia originaria che riconduce alle origini del sito, e i fogli di Corten del fronte d’ingresso alla galleria. L’interno si tinge di nero per gli impianti a soffitto e per dare profondità ai setti perimetrali, così da ribaltare il rapporto figura/sfondo con un manto dark dove le opere appaiono inscritte nell’oscurità di un firmamento attraversato da lame di luce naturale che s’infiltrano tra la copertura a shed. Si scompagina così quotidianamente l’infilata centrale di solidi parallelepipedi regolari bianchi, disposti come stanze appena accennate per segnalare le macroaree estetiche in cui si palesa la collezione, pensate dai coniugi Floridi con la curatrice Giuliana Benassi e il direttore Alessio Versenassi, per simultanei e multipli cambi di scena a seconda che il punto di vista sia frontale o di sbieco, o attraversante lunghi coni prospettici. Scorre, aereo, il giallo delle capriate in ferro, che solleva tutto in un disegno leggero dell’archeologia industriale, rendendo immediatamente leggibile la sua essenza nella galleria: lo spazio fluido e minimale di una fabrica dell’arte in prossimità millimetrica a un antico muro di tufo, che collega matericamente, al di là della Fondazione, l’emergenza di una struttura circolare identificata come il mausoleo di Attilio Regolo risalente al II secolo d.C. Tutto il progetto avviene all’insegna del riuso e dell’energia a impatto zero.
Allestimento e nuove tecnologie per la comunicazione: il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia
L’archeologia continua ad essere area privilegiata per cimentarsi nella complessità del museo contemporaneo. Il MNETRU è un caso paradigmatico per la capacità di prefigurare apparati di comunicazione integrati all’allestimento architettonico. “La macchina del tempio”, architettura multimediale ideata da Valentino Nizzo, con l’allestimento ancora a cura di Andrea Grimaldi e di Digilab, struttura di ricerca applicata della Sapienza, sperimenta un “riuso innovativo del tempio di Alatri, ricostruzione portata a termine a fine Ottocento secondo le dottrine dell’archeologia sperimentale di fine secolo”.
Il progetto è vincitore di un finanziamento della Regione per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie per la valorizzazione del patrimonio culturale. “Come utilizzare le nuove tecnologie per rendere più efficace la comunicazione del valore storico ed estetico di una collezione? Ed ancora, come trattare e considerare gli allestimenti degli anni eroici della museografia italiana che costituiscono essi stessi, molto spesso, un bene culturale da preservare? Sino a che punto è giusto eliminarli? E in che modo si deve affrontare il tema degli ampliamenti degli organismi museali? Come renderli partecipi di una visione coerente con la struttura originaria, capace di far sentire l’appartenenza a un’idea di sistema delle diverse sedi distaccate?” Questi interrogativi sono alla base del progetto, esito di un lungo itinerario di ricerca interistituzionale e transdisciplinare avviato nel 2018 e che oggi si avvera con gli appalti del primo stralcio del progetto di conversione museale delle ex Concerie Riganti. Sintesi funzionale e scenari di lungo respiro dove condensare la messa a sistema d’informazioni e dati, dando spazio all’immaginario di risonanze e meraviglie.
Immagine copertina: «Serpentine», interno del MAXXI (© Francesca Pompei)
Architetta museografa, docente al Politecnico di Milano. Insegna architettura degli interni, exhibition design e si relaziona con le arti contemporanee (commons), di cui scrive su riviste specializzate italiane e internazionali. La museografia è il filo rosso che attraversa sia l’impegno teorico, sia la progettazione e la messa in opera di allestimenti che riguardano le intersezioni sensibili all’arte, alla scienza e alla filosofia, in sinergia con enti universitari, musei e istituti di ricerca. L’indagine su media art come dispositivi di produzione artistica in commoning è l’ambito di studio e di sperimentazione delle attività più recenti, da cui prende corpo con Freddy Paul Grunert, Lepetitemasculin, dialogo nello spazio perso, iniziato al Lake County, San Francisco