Un vaccino (politico) contro l’invasione barbarica
Riceviamo e pubblichiamo una riflessione che parte dalle immagini autogenerate e arriva alla deontologia del fare architettura
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Published 11 giugno 2025 – © riproduzione riservata
Chi è Jean Jacques Balzac? Non un intellettuale francese dell’Ottocento, la sua vera identità non è nota. Molti potrebbero considerarlo un’artista, certamente è un abile sperimentatore di generazione artificiale di immagini. Sappiamo che è un architetto parigino e che pubblica, ormai da più di due anni e con grande successo, immagini visionarie prodotte con un’intelligenza artificiale generativa. In un’intervista a Linkiesta, si è definito “un uomo rinascimentale”.
Quando ci scrivemmo su Direct, nell’agosto del 2023, aveva da poco iniziato a pubblicare. Dopo aver scoperto le sue immagini, gli scrissi quasi subito per congratularmi e chiedergli con quale software stesse producendo quei capolavori visivi. Ero particolarmente curioso perché proprio in quel periodo avevo appena concluso un anno di formazione e sperimentazione sull’archviz — Architectural Visualization, la disciplina delle visualizzazioni architettoniche (non chiamateli render!) — lavorando soprattutto con 3ds Max, Corona Render e Photoshop.
Vedendo per la prima volta quelle immagini, pensai che l’autore fosse un maestro assoluto della disciplina e che probabilmente si servisse anche di un aiutino dell’intelligenza artificiale per alcuni dettagli, come avevo appena iniziato a fare anch’io. Rimasi sorpreso quando mi rispose che non c’era alcun segreto: le immagini erano prodotte interamente con Midjourney. L’ultima volta che lo avevo usato, qualche mese prima, era stata una sperimentazione in cui si intuiva il potenziale ma con risultati ancora acerbi. Stavolta erano eccezionali, non ci potevo quasi credere. Ciò che mi avrebbe richiesto settimane di lavoro era stato prodotto in pochi secondi. Preso da entusiasmo e inquietudine, continuai a sperimentare tutta l’estate e creai anche una pagina Instagram dove pubblicavo i risultati più interessanti, corredati da didascalie fittizie che ogni volta mi divertivo a inventare.
Esaurimento artificiale
Continuavo a “promptare” su Midjourney ma dopo alcune settimane mi resi conto di essere già stanco. Era divertente, ma allo stesso tempo logorante. L’unica cosa che continuava ad essere onestamente coinvolgente era la parte che era rimasta in modo esclusivo umana, cioè inventare la didascalia e il luogo. Per un po’ fu entusiasmante trovarsi dentro il frastagliato guazzabuglio di sperimentatori di questo nuovo mondo di avanguardisti. Fra i pochi follower di quel mio nuovo profilo compariva anche lui, Jean Jacques Balzac.
A settembre dello stesso anno interruppi l’esperimento. Pubblicare nuove immagini non aveva più significato, se non quello di inseguire qualche follower su Instagram sfruttando la facilità di una produzione apparentemente senza sforzo.
Non ho mai voluto diventare quello che in Italia viene spesso chiamato con disprezzo il “renderista”, ma volevo farne una parte importante della mia offerta come professionista. L’incontro con Balzac mi portò ad abbandonare quest’idea e tornai sul versante della concretezza, a lavorare in cantiere.
Credo di aver avuto fortuna rispetto a chi ha speso anni in un settore bellissimo che però è – e sarà nei prossimi anni – sconvolto in modo radicale. I superstiti saranno pochi, presumibilmente fra le firme più consolidate nel settore. Forse si salveranno unicamente quelle realtà quasi mitiche, come MIR: botteghe di artisti rinascimentali, in cui l’immagine è solo la traccia di una ricerca più profonda. Oppure potrebbe essere proprio in queste roccaforti dell’immagine che la crisi mostrerà il suo volto più spietato, rivelando la portata dell’intelligenza artificiale.
L’inflazione delle immagini
Un tempo, le riviste offrivano un’esperienza quasi mistica: sfogliare scorci restando sul proprio divano. Oggi quell’esperienza si è trasformata in un rumore pervasivo. Questa inflazione delle immagini ha continuato a crescere esponenzialmente negli anni e ha avuto una poderosa impennata grazie ad Instagram. Quello che invece adesso sta avvenendo con l’intelligenza artificiale non è un’ulteriore esplosione di questo fenomeno, ma la nascita di un’entità di natura radicalmente nuova e, per certi versi, mostruosa.
Penso che Harari abbia colto l’essenza del discorso quando parla di “intelligenza aliena”. Discutere se l’AI sia davvero creativa, consapevole o dotata di coscienza rischia di essere una distrazione. Si tratta di entità radicalmente diverse, difficili da confrontare con categorie simmetriche. Non è questione di stabilire se l’intelligenza artificiale sia superiore o inferiore all’umano: piuttosto, occorre osservare le trasformazioni oggettive che questa tecnologia sta generando, anche nel progetto.
La produzione automatica di immagini comporta un cambiamento profondo nella logica del progetto. La facilità con cui si possono generare migliaia di varianti porta a un atteggiamento consumistico anziché creativo. La bulimia visiva incoraggia un consumo compulsivo di possibilità, inibendo il processo faticoso della progettazione. Come ricorda Umberto Galimberti, Kant, nella “Critica del Giudizio” (1790), inserisce la bellezza “nella categoria della inutilità”. L’intelligenza artificiale svaluta questo potere: trasforma l’immagine in un puro strumento di consumo. L’architettura (quella vera) non è un catalogo da cui selezionare.
Nonostante sia ormai uno dei cliché di ogni convegno, la frase di Adolf Loos (“Quando in un bosco troviamo un tumulo […] questa è architettura”) continua a dirci qualcosa di fondamentale. L’essenza più inalienabile dell’architettura non risiede nell’immagine ma nel sentimento e nel significato. Il sentimento non è il sentimentalismo romantico a cui talvolta ci si appella contro l’AI, ma l’attività nella vita concreta della costruzione, nei processi collettivi e biografici intorno al progetto. L’intelligenza artificiale generativa erode questo processo progettuale ma proprio per questo può agire da antagonista evolutivo. Come un vaccino che attiva il sistema immunitario dell’architettura. La risposta possibile è quella delineata da Kenneth Frampton: un ritorno a una progettazione critica, contestuale, capace di generare significato e non solo forma.
L’alternativa non auspicabile è che i professionisti si adattino come operai sfruttati analfabeti: “faccio quello che Instagram vuole, tanto è quello che mi fa lavorare”. Da un lato, chi rifiuterà o limiterà l’AI scegliendo una via radicale e critica; dall’altro, chi sarà ancora una volta ridotto al ruolo di consumatore, credendo di fare architettura.
In conclusione, sarà la qualità deontologica degli architetti, nel significato più alto del termine, che influenzerà in modo decisivo l’esito di questa invasione barbarica (o aliena) nell’architettura. La differenza starà nella consapevolezza e nella responsabilità di ogni singolo professionista rispetto al significato profondo del proprio lavoro, mantenendo una fermezza necessaria e inevitabilmente politica.
Laureato in Architettura all’Università di Firenze nel 2018 con una tesi in Islanda che ha ricevuto la dignità di pubblicazione. Dal 2020 architetto libero professionista, ha lavorato nelle Dolomiti Bellunesi e attualmente vive a Firenze. È consigliere direttivo dell’associazione culturale Cantieri d’alta quota con cui scrive su “a”, rivista dell’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Trento. Scrive anche per la rivista “Insegnare”.