Verso uno spazio pubblico rarefatto?

Verso uno spazio pubblico rarefatto?

 

Di fronte ai possibili scenari “privatistici” post pandemia, la difesa degli spazi pubblici sarà l’espressione di un vincolo comune dotato di senso, la conferma del patto sociale, della volontà di stare insieme nei luoghi che rappresentano l’identità di una città

 

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La pandemia e i conseguenti provvedimenti di distanziamento sociale stanno cambiando il rapporto tra vita pubblica e vita privata. L’intensa vita che animava strade, piazze, parchi, scuole si è improvvisamente spenta e tutti si domandano quando finiranno le misure di distanziamento sociale. Ma c’è una domanda più insidiosa: quante di queste abitudini straordinarie diventeranno ordinarie, se sono attendibili le previsioni di scienziati e virologi che annunciano un lungo periodo segnato da nuove possibili pandemie? Saremo costretti a vivere perennemente nel terremoto? In molti salutano con ottimismo le strade non intasate dal traffico, l’aria più pulita, l’utilizzo diffuso delle tecnologie informatiche: una “decrescita infelice” che può essere preludio a una “decrescita felice”, a conferma del glossario cinese che offre due interpretazioni opposte della parola “crisi”: minaccia e opportunità. L’opportunità è quella di una grande irripetibile occasione per un cambiamento radicale della nostra esistenza, incardinato su tutela dell’ambiente e della salute considerati beni comuni inalienabili.

Ammesso che sia questo lo scenario di medio/lungo periodo, è prevedibile nel breve periodo una significativa limitazione nell’uso degli spazi pubblici, per i quali saranno definiti protocolli di comportamento talmente restrittivi che ne potranno snaturare le funzioni e il valore d’uso. Strade, giardini, parchi, scuole, stadi, teatri, tutti gli spazi pubblici o a uso pubblico dovranno garantire la distanza tra gli individui. Distanza fisica che si trasforma anche in distanza psicologica; distanziamento sociale che col tempo perde il suo significato contingente di distanza fisica e acquista il suo più autentico significato di separazione tra classi sociali, categorie lavorative, generazioni. Sono diametralmente opposte le parole di uso corrente e quelle che identificano uno spazio pubblico: rarefazione al posto di densità, identificazione al posto di anonimato, separazione sociale invece d’interclassismo, individualismo al posto di socialità, controllo invece di libertà.

C’è chi punta il dito sulle metropoli moderne con eccessiva densità abitativa. Che si possano e debbano recuperare le aree interne del Paese abbandonate non v’è dubbio, ma il rischio di un nefasto sprawl urbano incombe, una villettopoli securitaria che sarebbe la parodia dei bunker antiatomici che negli anni ’60 si facevano costruire i ricchi. È prevedibile che si formino o rafforzino gruppi omogenei per censo, per affinità culturali, per condivisione di attività sportivo-ricreative che selezionano gli appartenenti al gruppo confidando nella loro “buona salute”.

Si annuncia che saranno permessi incontri di più persone nei giardini privati: e chi non ha questo privilegio? E le comunità straniere che ritrovano l’identità collettiva negli incontri domenicali nei parchi e nelle piazze? Per bambini e ragazzi, come si potrà conciliare la distanza di sicurezza sanitaria e l’incoercibile bisogno di vicinanza fisica e affettiva tra coetanei? La complessa riorganizzazione funzionale delle scuole pubbliche favorirà la crescita di quelle private?

Nel trasporto pubblico il carico consentito a ogni mezzo sarà ridotto. È difficile l’aumento dei mezzi, visto il deficit cronico delle aziende municipali di trasporto; è più probabile che prevalga la scelta dei sudcoreani i quali, appena usciti dalla fase pandemica acuta, stanno incrementando il mercato delle automobili. Potrebbe svilupparsi il car pooling, ma la linea strategica del trasporto pubblico sarebbe comunque ridimensionata a favore di una soluzione privata.

Forse aumenteranno i third places teorizzati del sociologo Ray Oldenburg, spazi privati con alcuni caratteri pubblici, terzi in quanto collocati in un’area intermedia tra l’abitazione e il lavoro: bar, ritrovi, pub, centri sociali che riunirebbero piccole comunità auto-selezionate.

Le manifestazioni di piazza, espressione di democrazia, potranno essere vietate per presunte ragioni sanitarie. Non è casuale che uno strumento di repressione sia chiamato “sfollagente”: diradare la folla è il modo principale per ripristinare l’ordine pubblico. Quella folla, quella moltitudine di sconosciuti, che è un’esperienza umana irrinunciabile per molte persone come il flaneur descritto da Baudelaire. Dovremo limitarci ai rapporti di vicinato, assecondare il controllo sociale, rinunciare all’effetto città?

La permanenza di un sostanziale distanziamento sociale renderà meno impellente per le amministrazioni occuparsi degli spazi pubblici, con il rischio di un degrado irreversibile degli stessi. Perciò, difendere gli spazi pubblici è un impegno di civiltà che dovrà tradursi in azioni: rivendicare da subito la manutenzione del parco, l’adeguamento dei giochi dei bambini, la riparazione della pista ciclabile, l’estensione massiccia delle zone a traffico limitato, la riorganizzazione del trasporto pubblico, la ristrutturazione delle scuole affinché siano aperte anche al territorio, la costruzione di centri sportivi polivalenti nelle periferie che raccolgano i giovani che hanno abbandonato la scuola, la riorganizzazione di quello spazio pubblico collocato all’estremità della vita sociale e troppo spesso dimenticato che è il carcere. Sarà un compito che potrà vedere uniti cittadini singoli, associazioni di quartiere ed esperti di ogni materia che potrebbero formare unità territoriali multidisciplinari. È la stessa pandemia, fenomeno complesso, che sta mostrando la necessità d’integrare scienze mediche e ambientali, sociologia urbana, psicologia, urbanistica, architettura, per conquistare capacità operative di tipo sistemico in grado di affrontare la complessità.

La difesa degli spazi pubblici sarà l’espressione di un vincolo comune dotato di senso, la conferma del patto sociale, della volontà di stare insieme nei luoghi che rappresentano l’identità di una città.

 

Immagine di copertina: podisti in un parco di Parigi (foto Mario Spada)

Autore

  • Mario Spada

    Laureato in Architettura nel 1971 presso il Politecnico di Torino, membro dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) ha svolto lavori in campo architettonico, in particolare nell’edilizia scolastica. E’ stato docente e coordinatore di cantieri scuola presso il CEFME (Centro Formazione Maestranze Edili di Roma). In qualità di esperto del Ministero degli Esteri ha lavorato per programmi di formazione e sviluppo in Africa. Tra il 1998 e il 2001 è stato direttore dell’USPEL (Ufficio Speciale Partecipazione e Laboratori di quartiere) del Comune di Roma, incaricato di promuovere l’urbanistica partecipata e comunicativa e l’Agenda 21 locale. Tra il 2001 e il 2007 è stato direttore della Unità Organizzativa 4 (Sviluppo locale sostenibile partecipato) del Dipartimento XIX (Sviluppo e recupero delle periferie) del Comune di Roma, incaricato di realizzare programmi innovativi nelle periferie, in particolare i contratti di quartiere. Coordina dal 2011 la Biennale dello spazio pubblico, di cui è presidente onorario.

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