Casa Circondariale di Siena (© Alessio Duranti)

Un carcere rimane un carcere, ma occorre umanizzarlo

Un carcere rimane un carcere, ma occorre umanizzarlo

 

Conversazione a tutto campo con Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, sul ruolo dell’architettura per affermare il carcere della Carta costituzionale. Il nodo critico dell’agenda politica, mai in sincronia tra scelte e realizzazioni

 

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Pietro Buffa (Torino, 1959), dopo la laurea e una specializzazione in Criminologia clinica, entra nell’Amministrazione penitenziaria nel 1993. Dirige negli anni gli istituti di Asti, Alessandria, Saluzzo e Torino. Nel 2000 viene promosso dirigente generale e con le funzioni di provveditore regionale dirige i Provveditorati dell’Emilia Romagna, del Triveneto, del Piemonte e, attualmente, della Lombardia. È stato direttore generale del personale e delle risorse presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e segretario della Cassa delle ammende. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Sociologia del diritto ed è autore di quattro monografie oltre che di numerose pubblicazioni in materia criminologica e penitenziaria. È stato insignito del titolo di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

 

Il carcere è una costruzione filosofica e sociale, ma è anche una realtà fisica e umana, fatta di luoghi ed edifici, di norme e regole, di esseri umani e di relazioni sociali, di storie e rappresentazioni. In sostanza una microsocietà, la cui territorialità e governance sono condizionate, almeno in parte, dalla configurazione architettonica dell’edificio che la ospita. Quindi, che ruolo affida all’architettura, per rispondere al mandato costituzionale riferito alla pena, ancorché carceraria?

Partirei dalla prima parte della domanda, laddove si parla del carcere come di una costruzione filosofica e sociale. Ritengo corretta una tale definizione anche se implica una distonia rispetto alla seconda parte del quesito. Il carcere è indubbiamente una microsocietà, ma non credo che sia tanto la concezione architettonica a condizionarla, quanto piuttosto la costruzione filosofica e sociale a determinare la forma del carcere. Ad esempio, gli istituti costruiti a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 sono stati condizionati dall’emergenza terroristica, per cui sono monocellulari perché il bisogno del momento, rispetto alla reclusione dei terroristi, era quello dell’isolamento e della possibilità di limitare le comunicazioni e la socialità. Quando feci ingresso nel carcere di Torino non vi era nessuna area verde. Oggi vi si trova un numero esorbitante di alberi e di arbusti perché, nel frattempo alle originarie esigenze se ne sono sostituite altre.

 

Nella fase del concepimento di una prigione due logiche s’incontrano e, in una certa misura, si scontrano: quella dei progettisti e quella dell’amministrazione che lo dovrà governare. Da un lato gli architetti pensano l’edificio secondo i criteri abituali della loro professione (estetici, funzionali, tecnologici, rispettosi dei bisogni materiali e psicologici degli utilizzatori, ecc.). Dall’altro l’amministrazione impone un capitolato tecnico estremamente preciso e vincolante in termini di sicurezza. Sino a che punto si conciliano queste due logiche tra loro contrastanti?

Innanzi tutto bisognerebbe chiedersi se possono incontrarsi, prima ancora di dire su quale terreno lo possano fare. In questo momento non intravvedo un incontro sistematico tra architetti ed amministrazione; vedo piuttosto un’assenza di rapporto. Viceversa, come dicevo prima, la prassi è trasfondere in una progettazione in larga parte in mano agli apparati statali quello che, in un dato momento, è ciò si vuole ottenere dal carcere. Nei rarissimi casi degli anni’70 in cui alcuni architetti esterni hanno contribuito alla progettazione degli istituti, ciò è avvenuto sulla base di un’idealità che li accomunava con la politica. Ma quel capitolo si è chiuso, e i motivi non li saprei dire. Sta di fatto che oggi lo Stato, più che l’Amministrazione penitenziaria, fissa le priorità del momento, e demanda agli organi preposti la progettazione che, sostanzialmente, rispetta almeno nei capitolati quelle che sono le indicazioni ordinamentali rispetto agli spazi, alla funzionalità ecc.

 

Limitandoci al solo Occidente, dovunque, la gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere; la maggior parte di essi non viene riabilitata ma semplicemente repressa, e privata, insieme ai loro cari, di elementari diritti che le Carte costituzionali di ogni stato sanciscono. Quanto di tutto è imputabile alle negatività architettoniche insite nel carcere quale istituzione totale?

La domanda affonda le sue radici su una delle tanti narrazioni che del carcere si fanno: una sorta di effetto ottico che è un gioco tra la verità e la verosimiglianza. Chiunque abbia potuto approfondire la statistica sa che con i numeri si può dire tutto e il contrario di tutto. Il nostro è un caso scuola. Sostenere che la pena carceraria abbia una sua inefficacia perché determina, questo è il termine chiave, una recidiva, e che la sua struttura fisica abbia un ruolo, pecca di almeno un errore di fondo. Qualunque visione deterministica si fonda sulla verosimiglianza piuttosto che sulla verità. È evidente che se analizzo il tasso di recidiva tra una popolazione condannata a misure alternative alla detenzione e lo comparo con quello riferito ad una popolazione condannata a pene detentive scopro, rispetto a quest’ultima, un tasso molto più importante. Ma ciò che i numeri tacciono è il fatto che stiamo parlando di due popolazioni completamente diverse, perché quello che fa stare le persone fuori, e riduce in qualche modo il tasso di recidiva, non è lo strumento penale che è stato utilizzato, ma il frutto della selezione per il quale quella misura è stata data, ed è una selezione sulle caratteristiche di affidabilità della persona, quando per affidabilità intendiamo normalità statistica rispetto al comportamento che ognuno dei consociati è tenuto ad avere. Allora a questo punto è da mettere in crisi l’affermazione che il carcere, nella sua forma, determini una mancata riabilitazione e, consequenzialmente alla domanda su quanto tutto ciò sia imputabile alle negatività architettoniche che conosciamo, tenderei a dire scarsamente imputabile perché è chiaro che una condizione di vita peggiorativa non può che stigmatizzare la persona; ma è la condizione sociale e psicologica dell’uomo in carcere, prima ancora della forma di quest’ultimo, ad indurre quel risultato.

 

Faccio parte di quella cerchia di architetti che operano sostenendo che la giusta considerazione del rapporto fra spazio ed essere umano, con i suoi bisogni materiali e psicologico-relazionali, nell’edificio carcerario, possa consentire di passare da un’architettura “che mortifica ed annienta” a un’architettura “che valorizza e riabilita” e offrire opportunità e dignità, tanto ai fruitori del servizio penitenziario, quanto al servizio stesso. Fino a che punto può l’architettura, con i suoi valori estetici e sociali, contribuire a cambiare nel carcere il corso negativo delle cose?

La domanda utilizza alcune formule la cui risposta, negli anni ’70 e ’80, avrebbero visto mettere in crisi lo stesso quesito, probabilmente rimandandolo al mittente. Mi riferisco all’architettura che valorizza e riabilita. Ancor di più mi scuote l’affermazione per la quale l’architettura possa “contribuire a cambiare nel carcere il corso negativo delle cose”.  Il carcere rimane comunque privazione della libertà, e dimenticarlo può significare edulcorare questa dura realtà, seppure con tutte le nostre buone intenzioni. Ma, detto questo, non sono un estremista e intendo rispondere alla domanda concentrandomi sull’offerta, da parte dell’architetto, di opportunità e dignità. Questo riconduce il discorso ad una visione più pragmatica attraverso uno degli elementi in gioco, in questo caso l’elemento architettonico. Non si può certo dire che la forma entro la quale la relazione umana e penitenziaria si svolge non debba essere presa in considerazione e sia indifferente ma, dal mio punto di vista, non è l’elemento prioritario seppur importante. È giusto che debba avere una sua coerenza nel senso di creare spazi adeguati allo svolgimento di quelle sottolineate relazioni umane, ma in tal senso, ne è funzione non determinante.

 

Alcune carceri recentemente realizzate all’estero si possono definire opere di architettura e non semplice edilizia, in quanto sufficientemente risolte sia sul piano funzionale che su quello estetico, ma soprattutto attente ai bisogni materiali e immateriali dei loro utilizzatori, indipendentemente dal titolo di utilizzo. Come valuta tali realizzazioni, dal punto di vista della funzione riabilitativa della pena e dell’umanizzazione del carcere?

La funzione riabilitativa, dal mio punto di vista, è concettualmente un’anticaglia. È un concetto che è stato ampiamente messo in crisi non solo nel volgo comune ma anche dagli addetti al settore. Quando sono entrato nell’Amministrazione si parlava di rieducazione, poi di risocializzazione e poi di reinserimento, successivamente di riabilitazione e ora di risarcimento: tra la rieducazione e il risarcimento passa dentro un fiume d’idee, posizioni e pratiche molto diverse tra loro. Anche in questo caso la forma architettonica credo incida poco. Sul punto dell’umanizzazione, viceversa, le condizioni e le forme strutturali di un luogo sono invece importanti. L’ampiezza di uno spazio, la sua gradevolezza cromatica, le condizioni dell’illuminazione, il tipo di arredamento, l’adeguatezza degli ambienti in relazione alla loro funzione aiutano a creare una migliore vita all’interno di un carcere. Un luogo dove vivi da solo nella tua cella, dotata di una certa gradevolezza e riservatezza e con un bagno a disposizione è ben diversa, in termini di umanità, da un luogo degradato in cui tu sopravvivi con tante altre persone che non ti sei scelto e senza alcuna intimità, per inciso la condizione più frequente nel nostro panorama penitenziario. Sarei comunque un pò più “laico” nel definire un carcere un’opera di architettura: una simile affermazione, pochi anni fa, sarebbe stata violentemente cassata. Un carcere rimane un carcere. Credo che l’opera di architettura abbia a che fare con la bellezza e il benessere, deve colpire per uno o più dei suoi elementi caratteristici che ti devono stupire, ti devono dare sensazioni positive. Ma questa condizione è cosa ben diversa da un luogo ed una condizione dove la volitività è fortemente limitata dal nucleo centrale e dove l’adattamento è la regola per tutti e a tutti i costi, pena la disperazione e la follia.

 

Gian Paolo Nascetti già nel 1983, sulle pagine de “La nuova città”, con riferimento allo stato delle nostre infrastrutture penitenziarie, parlava della consapevolezza, che ci deriva dall’analisi storica, che ogni progettualità architettonica sottende un modello di esecuzione penitenziaria, e di quanto essa ci induca a rilevare come il riferimento costante e puntuale del nostro ordinamento penitenziario ad una esecuzione personalizzata e ad una diversificazione del trattamento non possa che aver accentuato l’aporia tra finalità rieducativa e miseria della situazione edilizia penitenziaria esistente. Come valuta in quella prospettiva la realtà odierna?

La prospettiva che viveva Nascetti nel 1983 appartiene ad un momento storico che poi non ha più avuto seguito. Ne è venuta meno l’idealità, l’elemento culturale di fondo. Nel 1983 siamo a 8 anni dalla riforma penitenziaria, in un momento in cui l’ordinamento è già in crisi ma si cerca di mantenere e rilanciarne lo spirito. È chiaro che c’è un vivace dibattito nel quale rientrano anche ragionamenti di questo genere. In realtà la miseria della situazione edilizia era forse più grave all’epoca che oggi. Siamo negli anni della gestione Amato che ha avuto il grande merito, tra i tanti, d’istituire l’edilizia penitenziaria. All’epoca non si poteva parlare davvero di un’edilizia penitenziaria che era stata, in larga parte, frutto del riutilizzo di conventi, rocche, fortezze ecc. Se ciò è vero allora, probabilmente, si distorce la storia quando si sostiene l’accentuazione dell’aporia tra le finalità rieducative della pena e la miseria della situazione esistente. All’epoca si credeva ad una finalità rieducativa, e questo forse obnubilava il fatto che la miseria della situazione edilizia era davvero grave. Oggi forse non si crede più davvero alla finalità rieducativa, ma emerge invece la condizione edilizia e la sua precarietà, che è una precarietà tra le tante italiane, dalle scuole ai ponti che crollano. È una miseria generalizzata che, ovviamente non può non interessare anche questo settore.

 

Che cosa pensa in merito ai progetti di rifunzionalizzazione a carceri delle nostre caserme dismesse? Per fare solo qualche esempio, dalla Nino Bixio a Casale Monferrato, alla Barbetti a Grosseto, alla Cesare Battisti a Napoli?

È un’occasione. Se parli delle cose della giustizia e della condizione del carcere in Italia non puoi non tener conto che l’Amministrazione non ha in mano tutte le carte del processo. La variabile determinante riguarda la decisione di ampliare o meno la platea delle persone a cui dedicare la prigione: è una scelta che concerne la politica criminale e quella sociale. Perché prima di quello penale, esiste un problema sociale dalla portata molto più ampia della capacità risolutiva dell’Amministrazione penitenziaria e che continua a fornire uomini da restringere dietro alle mura di un carcere. Tengo a precisarlo perché spesso, quando si parla di sovraffollamento, si genera un corto circuito; come se il sovraffollamento fosse un problema creato dall’Amministrazione penitenziaria senza tener conto che essa ne è vittima. Basti vedere che cosa è successo in questo periodo contraddistinto dalla pandemia. È stato subito chiaro che il distanziamento sociale era uno dei rimedi più efficaci per limitare il diffondersi del virus. Ma come si può attuare in carcere? Una parte della nostra società ha detto che bisogna svuotare le carceri ma, ovviamente, l’altra parte ha detto esattamente il contrario. Per questi ultimi il rischio della delinquenza è maggiore del rischio della pandemia all’interno delle strutture penitenziarie, mentre i primi lo accettano tranquillamente per evitare quella che si prospettava come una vera e propria ecatombe. In Lombardia ho circa 4000/4500 celle e all’inizio della pandemia avevo 8000/8500 persone. È evidente che avrei dovuto ridurre della metà il numero degli ospiti per garantire loro un sistema efficace di prevenzione, ma così non è successo. Allora, in un simile contesto, qual è la priorità? Lo spazio, fare dello spazio, che se non riesci a limitare gli ingressi devi gestirli all’interno. Quindi, la conversione delle caserme rappresenta un’occasione perché è un sistema rapido che ti fa evitare tutta una fase procedurale di espropriazione di terreni e di ricorsi connessi.

 

In uno dei suoi ultimi libri, intitolato Umanizzare il carcere, Lei prende in considerazione la revisione normativa e gestionale finalizzata all’umanizzazione del sistema penitenziario italiano, messa in atto a seguito delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come interpreterebbe lo stesso tema in chiave architettonica?

Proprio su questo, ultimamente, mi è stato dato l’incarico di ritornare con altri colleghi su una definizione di modello gestionale dei detenuti. Il dibattito si è poi concentrato sul fatto che le persone dovessero uscire fisicamente dalle proprie celle e vivere una vita diversa da quella che, ordinariamente, fino a quel momento si era condotta. Uno dei nuclei centrali del lavoro assegnato corrisponde alla domanda: uscire dalla cella perché e per dove? La prima risposta è relativamente semplice. La chiusura in una cella obbliga una persona in uno spazio ristrettissimo, mentre la sua chiusura all’interno del suo reparto la costringe in un luogo che ha almeno un corridoio che normalmente misura tra i venti e i cinquanta metri. La seconda risposta è molto più complicata perché, anche se abbiamo dato a questa persona cinquanta metri di corridoio in più il problema è che questo non è comunque umano, se a questo non viene connesso anche altro. Allora, una delle questioni che si sta dibattendo è: dove li portiamo e per fare che cosa? Gli istituti costruiti negli anni ’90 avevano previsto spazi ai piani terra da utilizzare per il lavoro, lo studio ecc., salvo che poi vennero sacrificati per farli diventare spazi di servizio, cioè uffici, magazzini depositi ecc.; anche in una certa parte dedicati alle attività trattamentali, ma non sono mai stati sufficienti per accogliere tutti, con il risultato che, finiti gli spazi, sono state respinte le proposte di attività. Ecco che interpretare in chiave architettonica l’umanizzazione del carcere significa progettare spazi sufficienti per fare uscire tutte le persone dalle loro celle, al fine di portarle in queste aree. A questo punto terminerebbe il mandato architettonico e dovrebbe iniziare quello relazionale, quello fattivo, legato alle attività che queste persone dovrebbero porre in essere.

 

Nella Relazione al Ministro sugli interventi in atto e gli interventi da programmare a breve e medio termine della Commissione ministeriale per le questioni penitenziarie del 25.11.2013, si indicava «(…) la necessità di avviare un’ampia discussione basata sul principio di non doversi poi trovare a gestire strutture, una volta ultimate, che non permettano una concezione della detenzione non meramente reclusiva; al contrario si promuoverà un’ipotesi di sperimentazione di istituti basati su modelli radicalmente diversi di organizzazione della detenzione. In questo contesto appare essenziale adeguare le cognizioni progettuali dell’Amministrazione penitenziaria anche attraverso il confronto e il contributo del mondo della progettazione architettonica con l’obiettivo di recuperare anni di previsione di strutture non centrate sull’analisi dei bisogni, materiali e psicologici, dei suoi futuri utilizzatori e parimenti non attente agli sviluppi culturali dello stesso pensiero architettonico». Che cosa di tutto ciò è stato attuato?

Innanzi tutto chiariamo che questa relazione è frutto di una commissione in cui c’erano degli architetti ed esprime il loro comprensibile punto di vista. Bisogna contestualizzare il momento e l’ambito. Non è un caso che sia il 2013, e non è un caso che in quel momento la politica s’indirizzasse verso alcuni obiettivi, tanto è vero che la commissione è frutto di un atto politico, di una volontà politica, come reazione alla sentenza Torregiani. Allora cosa è stato attuato? Sono stati fatti dei tentativi, ma nel frattempo è cambiato il momento politico; e torniamo all’inizio della nostra conversazione. Le decisioni politiche si modificano repentinamente, molto più dei tentativi operativi e gestionali. Questo vuol dire giocare sempre perennemente in contropiede; ovvero, è difficile rendere coesi scelte e realizzazioni, E ciò, purtroppo, fa sempre riferimento al pendolarismo dell’agenda politica rispetto al carcere, che dovrebbe vedere una sincronia sino ad oggi mai realizzata.

 

Autore

  • Cesare Burdese

    Architetto torinese da decenni impegnato nel campo dell'edilizia penitenziaria con una visione fortemente innovativa, per restituire all’edificio carcerario la dovuta coerenza con le finalità costituzionali della pena. È autore del progetto di riorganizzazione spaziale dell'Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” di Torino, delle linee guida e spunti progettuali per il nuovo carcere di Bolzano, degli arredi degli “Spazi gialli” per le sale di attesa nelle carceri, del progetto della sezione femminile ICAM a Torino, del progetto in corso del nuovo carcere della Repubblica di San Marino. Nel 2013 è stato membro della Commissione ministeriale per gli interventi penitenziari e nel 2015 è stato componente del Tavolo numero 1 “Gli spazi della pena: architettura e carcere”, nell’ambito degli Stati generali dell’Esecuzione penale. Membro della Commissione ministeriale per l'Architettura penitenziaria 2021.

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