Tra tagli e ambiguità, la sfida delle Case di Comunità
Alla politica di decentramento dei presidi sanitari non ha ancora fatto eco un impegno del progetto a riconoscere la specificità del tema
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Published 13 dicembre 2023 – © riproduzione riservata
Le Case di comunità costituiscono una tra le migliori risposte alla crescente generale domanda di salute, in particolare dopo la drammatica esperienza pandemica del Covid-19. Stando sul cosa fa l’architettura all’interno di questa politica di decentramento dei presidi sanitari, le cronache riportano da una parte la bocciatura della Soprintendenza della Casa di comunità a Salò firmata da Stefano Boeri Architetti, causa lo “sventramento del declivio boscato” a cui si potrebbe aggiungere l’improbabile tipologia ad anello includente il consueto effetto giungla, dall’altra i tanti tagli del nastro di una prosaica edilizia sanitaria dove il decentrato si combina al dimesso, spesso sguarnita di adeguata presenza medica e infermieristica, quindi inadatta anche al servizio oltre che al ruolo urbano. Nel mezzo si rilevano strutture dove, pur all’interno di un effettivo processo di decentramento sanitario, come nel contesto dell’Emilia Romagna, manca ancora un originale retroterra ideativo, così abdicando ad altri modelli e al coop-linguaggio di un’architettura priva d’identità.
I finanziamenti PNRR: dal naufragio preventivo all’individuazione di una specificità
In questa italica oscillazione tra velleitarismo effettistico e banalizzazione dell’architettura, il tema della Casa di comunità è partito con grande slancio attraverso la previsione del PNRR 2021 di 1.350 interventi, a cui però subito se ne toglieranno 400 secondo la revisione di piano dell’estate 2023, guarda caso quelli di nuova costruzione a più alta pregnanza tipologico-funzionale.
Rispetto a questo naufragio preventivo, dettato da ritardi e insufficienza della politica nonché dell’apparato amministrativo ai diversi livelli, il risvolto positivo potrebbe riguardare una ricerca del progetto architettonico in grado di sfruttare questa pausa attuativa per individuare criteri specifici applicabili ad un tema così importante, anche sul piano di una sistematicità di diffusione a scala nazionale come da tempo non si vedeva nella recente storia dell’edificato pubblico per la città.
Se la tipologia ospedaliera presenta, dalla modernità rinascimentale sino a quella industriale, attraverso un’evoluzione storico-tipologica sempre più specializzata, il senso di un’efficienza curativa prima in chiave di dispositivo foucaultiano poi di macchina di produzione fordista, quella della Casa di comunità guarda alla dimensione della prossimità, della promiscuità, ad una cultura proto e meta-sanitaria che è anche assistenza, aiuto, ad esempio riscontrabile, forzando analogicamente, nei tanti ospizi intrinsechi al tessuto della città medievale. In altre parole, il tipo della Casa di comunità non costituisce occasione per mutuare la tipologia ospedaliera, magari ridotta in sedicesimi e a più alto tasso di generica “umanizzazione”, bensì deve trovare una propria specificità in termini funzionali quanto tipo-morfologici e perfino iconici all’interno della fisiologia sociale e del paesaggio della città.
Una distinzione significativa che risiede d’altra parte nello stesso Decreto Ministeriale 77 del 2022, dove si sancisce il passaggio nominalistico, in realtà sostanziale, tra la Casa della salute e quella di comunità, così aprendo alla concezione di una sanità d’iniziativa, a strategie di prevenzione, secondo un’ottica integrata di evidente valenza comunitaria, per la presa in carico olistica della persona anche nei suoi bisogni socio-sanitari e socio-assistenziali oltre che prettamente sanitari. Un nuovo quadro situazionale che richiede i propri spazi, la propria architettura.
Spazi di cura, integrati e per la collettività
Mancando letteratura scientifica in materia e andando oltre il “Documento di indirizzo per il metaprogetto della Casa di comunità” del Politecnico di Milano, commissionato da Agenas (di sicura utilità tecnico-sanitaria ma ancora prevalentemente interno a principi di logistica ospedaliera, nonché privo di concreti criteri architettonici se non quelli consuetudinari, sostenibilità in testa), un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università di Parma (Quintelli, Prandi, Verterame, Simbari, Taheri), intestatario di una ricerca PNRR Missione 04, ha voluto affrontare la questione di un’architettura per la Casa di comunità che potesse fare emergere una pluralità di strumenti del progetto, utili a delinearne uno specifico carattere tipologico, di morfologia degli spazi e non di meno di ruolo urbano.
Convinti dell’apporto che la qualità architettonica può fornire all’esperienza della cura in senso non solo medico ma anche sociale, è parso opportuno focalizzare l’attenzione su due piani strettamente collegati: quello tipologico e quello urbano. Il primo si fa interprete delle possibilità innanzitutto fruitive di una dimensione comunitaria degli spazi che enfatizza l’accoglienza, facilita le relazioni, consente le opportunità informative, interpreta l’ampliamento delle dotazioni di servizio sia sanitarie che sociali, realizza il senso di rappresentanza e quindi appartenenza attraverso il fattore iconico. Inoltre, forma e relazione degli spazi facilitano gli operatori nelle pratiche interprofessionali e trans-professionali all’interno di ambienti concepiti anche per il terzo settore, l’apprendistato, la formazione. Il secondo riguarda il ruolo urbano della Casa di comunità quale fattore rigenerativo di caratterizzazione dello spazio pubblico, attraverso precisi criteri di posizione, accesso e carattere dei luoghi, all’interno dei quartieri in auspicabile sinergia con altre strutture di servizio.
Che non siano “Case vuote”
Fuori da ogni provincialismo, il percorso di ricerca, più che nell’ambito italiano, sembra trovare riscontri in quello della casistica internazionale dove, pur nella variazione di ogni sistema sanitario, la tipologia del centro di cura e assistenza a presidio di città e territorio dimostra una certa maturazione del livello identitario oltre che funzionale. La capacità di determinare spazi dove la salute, in un’accezione estesa, è innanzitutto un fenomeno di funzionalità comunitaria, dove fruitori ed operatori sono pariteticamente coinvolti. A questo si aggiunge un linguaggio che spesso ben rappresenta i caratteri di una figuratività del contesto declinata sulla specificità del tema. Sia che rimandi alla cultura aborigena di certi contesti australiani, alla densità della città giapponese, al clima messicano, alla politica dei servizi pubblici spagnoli e a tanti altri casi dimostrativi di un regionalismo non di maniera e intrinseco a qualsivoglia autentica espressione di architettura.
Ma, tornando al contesto italiano, anche gli architetti potranno fare ben poco per le Case di comunità se la sanità pubblica continuerà ad essere sotto finanziata, e di sicuro non ci consola la progettazione di Case vuote.
Casi studio internazionali
Casa della salute a Newman, Australia (Kaunitz Yeung Architecture, 2020)
Casa della salute a Escarcega, Messico (JC Arquitectura, Kiltro Polaris Arquitectura, 2022)
Casa della salute a Chiba, Giappone (Hkl Architets, 2015)
Casa della salute a Muros, Spagna (Irisarri Piñera Arquitectos, 2007)
Immagine di copertina: progetto di Casa della salute a Salò (Stefano Boeri Architetti, 2023)
Nato a Parma nel 1958, dopo la laurea a Milano e il Dottorato allo IUAV, insegna progettazione al Politecnico di Torino. Dal 2001 è Ordinario di Composizione architettonica alla Facoltà di Architettura di Parma di cui promuove la fondazione con Guido Canella nel 1998. Dirige il Festival dell’Architettura dal 2003 al 2011, e si applica alla ricerca, tra architettura e città, con particolare attenzione al contesto emiliano (Cittaemilia). Tra i progetti più recenti l’allestimento dell’archivio-museo-laboratorio dello CSAC all’Abbazia di Valserena a Parma