Vista a volo d'uccello da est dell'Ospedale (da Gruppo Stampa e Propaganda Educativa, a cura di, Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista e della Città di Torino e Cliniche Universitarie, nuova sede, Torino, 1937)

Torino: tu chiamala, se puoi, città della salute

Torino: tu chiamala, se puoi, città della salute

Un percorso attraverso il pastiche dell’ospedale delle Molinette e alcune osservazioni generali

 

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Published 24 ottobre 2022 – © riproduzione riservata

 

Caro Renzo [Piano],

ho letto con vera curiosità il tuo ritornare sull’architettura ospedaliera e presentare non solo idee, ma anche i progetti che stai realizzando. Da amico e da storico, ma questa volta anche nella veste di paziente, vorrei però che tutti potessero conoscere il punto da cui oggi noi partiamo. Una volta, un po’ presuntuosamente, la chiamavamo realtà. Lascio giudicare ai lettori come chiamarla e anche di attribuire a quale autorità si deve quest’autentico guazzabuglio medievale. Sarebbe forse un’occasione autentica per un dibattito sull’autorità e sulla decisione, sul progetto e l’opera, sulla professione e l’etica. Con affetto

Carlo Olmo

 

Quella della Città della salute (spesso “della scienza e della salute”) rappresenta una delle figure retoriche più ricorrenti nei discorsi degli amministratori, dei politici, degli urbanisti, dei promotori immobiliari. Legata alla rigenerazione, una parola chiave dalle infinite declinazioni soprattutto in questo caso, all’orizzonte di ogni elezione (amministrativa, politica, accademica) appare la carta più seducente da giocare per cittadini alle prese con problemi di malattia, paradossalmente moltiplicati all’infinito dalla pandemia. Quasi un mix, quello che viene rappresentato, di La vita è un sogno e del Mago dei prodigi che Pedro Calderón de la Barca scriveva tra il 1635 e il 1637.

Generalizzare è sempre stupido, per cui propongo solo un percorso che io stesso ho fatto negli intermezzi obbligatori di un esame eseguito all’ospedale delle Molinette a Torino come paziente ma, purtroppo, anche come storico dell’architettura.

Come non tutti sanno, il progetto di Eugenio Mollino si completa in sette anni, tra il 1927 e il 1934 e, in quel caos tutt’altro che calmo che sono oggi le Molinette, emergono ancora alcuni lacerti di quel progetto che, se attraversate il nosocomio come foste in una giungla, certamente incontrerete (come i due esempi che seguono, anche se “abbelliti” da inesorabili innovazioni impiantistiche).

 

Non li segnalo per suggerire, o peggio, rivendicare una conservazione delle architetture originarie: sono scelte che non mi spettano. L’architettura vive e si trasforma, altrimenti diventa il simulacro di un tempo che fu. Ma questi edifici, a parte i necessari interventi su impianti (di ogni genere), sono quasi abbandonati alla loro inguaribile vecchiaia. Se avrete la pazienza di seguirmi, vi accorgerete tuttavia che restano la cosa migliore non solo come disegno architettonico e unità compositiva, ma persino come veste stilistica.

 

Con il filo d’Arianna tra lotti saturati

Muoversi dentro le Molinette richiederebbe in realtà il filo d’Arianna. Ci si può muovere non con logica, ma solo per successive sorprese e, se mai vi avventurerete fuori dai reparti negli infiniti spazi residuali che dovrebbero connetterli, vi domanderete quale principio, se non il più antico nelle costruzioni delle città, abbia generato un labirinto simile: la saturazione dei lotti. Solo che questo è avvenuto generando il più improvvisato pastiche architettonico, con la complicità narcisistica di architetti e ingegneri chiamati a intervenire.

Potrete così imbattervi, casualmente, in una clinica (non faccio nomi per doveroso rispetto dei malati) che appare un mix di una fugace fuga in Olanda e del più tradizionale corpo di fabbrica, che potrebbe avere qualsiasi destinazione, compresa la sequenza di abbaini, normalizzati dalla produzione edilizia, non certo dalla mancanza di fantasia dell’architetto.

Come potrete scoprire, fatte poche decine di metri, un fac-simile quasi grottesco di un edificio high tech, provinciale e incompiuto, che si affaccia su un grande spazio vuoto unicamente destinato al parcheggio, quando sulla destra – e lo s’intravvede – è stato costruito il parcheggio per i dipendenti. O in una brutta copia, non ancora finita, di un edificio del Richard Meier anni novanta.

 

Con un corollario: neanche nella zona ospedaliera si rispettano le distanze che sin dal Regolamento di ornato normavano la costruzione della città (di Torino, ma non solo). Vicoli “abbelliti” da scale esterne antincendio rendono almeno “pop” il mancato rispetto del rapporto tra altezza degli edifici e larghezza delle strade. Con uno squarcio di vista, un po’ come nelle vecchie cartoline anni cinquanta, che fanno intravedere le trame a colori di un padiglione residuale di Mollino.

 

Il blob delle sopraelevazioni

Ma la ricchezze delle varianti nella più pura tradizione torinese riguardano anche e soprattutto le sopraelevazioni.

Chi non ha presente quel gioiello che è la sopraelevazione residenziale di Gino Becker su corso Massimo d’Azeglio, madre di ogni copia o, più spesso, di abusi non tanto edilizi, quanto socio-culturali? A New York si dice che la città, o meglio i suoi cittadini più danarosi, comprano il cielo. A Torino hanno troppo spesso ridotto un possibile modo di vivere a uno status sociale, e la sopraelevazione è diventata immediatamente l’attico, o, come alle Molinette, autentici blob che fuoriescono da padiglioni di qualsiasi epoca e destinazione.

Ne mostro solo due, perché il cittadino li può ammirare entrambi da corso Dogliotti (povero! sono blob sulla sua ex clinica chirurgica).

Il primo sembra non esaurire la fantasia dei sopraelevatori con un gioiello, non si sa se voluto o meno: impianti che quasi disegnano una scultura la quale, per di più, in queste estati sempre più lunghe e calde, diventano quasi specchi ustori rivolti verso chi abita nei pressi del parco Europa. Quelli che nel 1961 erano gli spazi di arrivo dell’ovovia che collegava l’Esposizione per il centenario dell’Unità d’Italia con il balcone sulla città che il parco Europa ancora offre, oggi ospitano parchi e residenze che le lamiere di un impianto con pretese artistiche quasi arriva ad incendiare.

Poco distante, l’altro esempio sbeffeggia, credo involontariamente, il figlio del progettista, Carlo Mollino, e una delle sue architetture più celebri, in cui hanno abitato torinesi illustri (in primis Norberto Bobbio): la Casa del sole a Cervinia, con l’incredibile invenzione della baita sul tetto. In questo caso, sul tetto è depositato un hangar (e gli si fa onore a chiamarlo tale) cieco, la cui sola fortuna è quella di essere leggermente arretrato (e che tanti visitatori ormai patiscono di cervicale).

 

Due osservazioni finali

A questo punto sarebbe sin troppo facile stilare l’elenco dei colpevoli chiamati alla sbarra: dagli amministratori degli ospedali, a iniziare dal mitico direttore sanitario Pino Folz, sino agli stessi medici, che pure quegli spazi vivono ogni giorno; dagli amministratori cittadini alle diverse soprintendenze che forse quello spazio interno neanche percorrono; fino alle scuole di architettura che di ospedali quasi più non si occupano. Ma mi preme esprimere due osservazioni, al di là del profondo sconforto che prende un visitatore come me di fronte ai continui abusi nello spazio più sacro per una società e una città, che è lo spazio dove i malati soffrono, vivono e, spesso, muoiono.

La prima riguarda i diritti. I muri delle Molinette definiscono diritti altri non solo per chi ci entra e che viene gestito come corpo malato, quasi mai come persona. Uno spazio che vede funzionare protocolli, non semeiotiche, pur di varia estrazione, ma i cui muri il diritto urbanistico non vige. Tutto è concesso in nome della “necessità” e giocando sulla paura (il Freud de Il silenzio avrebbe molto da suggerire).

L’altra osservazione è quasi patetica: la retorica della città della scienza e della salute su cui Torino è vissuta sin dai tempi della giunta regionale guidata da Mercedes Bresso (2005-10). Gli edifici possono essere demoliti, ma i comportamenti sociali e collettivi che hanno portato a questi esiti – e l’architettura è un terribile giudice – si trasferiranno in qualsiasi altro luogo, da Lingotto a Orbassano.

Franco Basaglia, nel riprendere la Favola del serpente sottolinea quanto sia ampio il margine di ambiguità su cui gioca persino Adamo, e quanto sia lecito che quel gioco possa, al contrario, guarire un malato che è definito pazzo. Ho paura che quello spazio, quell’autentico caleidoscopio di brutture non lo consenta.

Chi è stato in grado di pensare, progettare, costruire, consentire, volere e avallare, sarà in grado di redimersi nel progetto e nella costruzione di una nuova Città della salute? L’architettura ha il difetto di durare e di segnalare, certo a chi la sa osservare, come, chi e con quali valori ha gestito quella costruzione in tutte le sue fasi, come avviene la manutenzione, come si accede e se esiste un progetto di spazio pubblico. E una società, qualsiasi essa sia, viene giudicata soprattutto da come tratta i “fragili”; o, per abusare di una parola oggi sulla bocca di tutti, come la qualità della sua democrazia sta negli spazi come nella capacità semeiotica dei suoi guardiani.

 

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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