Territori del contagio: servono mappature più dettagliate
Occorre passare dall’analisi su base amministrativa a quella relativa alle caratteristiche delle infrastrutture di connessione territoriale e al grado di permeabilità delle aree interessate
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Da quando, verso fine febbraio, gli effetti dell’epidemia hanno impattato sul territorio italiano, siamo quotidianamente bombardati da sofisticate infografiche che ci mostrano la sua evoluzione, la sua diffusione e l’amara conta dei contagiati e dei morti. E che ci spigano che “i dati dei contagi sono aggregati per provincia e i morti per regione”. Un’analisi fatta esclusivamente su base amministrativa.
Nella maggior parte delle descrizioni della pandemia che circolano, soprattutto in pubblicazioni di tipo divulgativo, emerge un importante deficit di analisi spaziale del fenomeno. Il problema è che, utilizzando come base di rappresentazione il territorio nella sua divisione amministrativa – ovvero un territorio delimitato da confini precisi –, la dinamica della propagazione (dato eminentemente spaziale) perde riconoscibilità: l’omogeneità che ne risulta (a ogni provincia corrisponde nella restituzione del dato un unico colore) non ci dice nulla riguardo alle logiche territoriali (spazi differenziati e articolati attraversati dai flussi complessi della mobilità) in atto.
Il dato mancante, apparentemente insignificante in termini statistici (la statistica, così come i sistemi sanitari, è coerente con la propria base amministrativa), ha invece una valenza fondamentale in termini di possibilità di comprensione del fenomeno e delle sue evoluzioni. Trattandosi di un virus arrivato dalla Cina dopo aver percorso, in pochissimo tempo, circa 9.000 km (e in grado d’impattare in modo così devastante sui nostri territori), è infatti quanto mai necessario elaborare un punto di vista fondato sul concetto di pluridimensionalità spaziale del territorio, per descrivere correttamente le molteplici e inestricabilmente interconnesse modalità di diffusione dell’agente patogeno e chiarire le “strategie” da esso utilizzate per raggiungere luoghi tra loro distanti e non direttamente collegati.
Se da un lato il concetto di connessione globale – che spiega i tempi ridottissimi della diffusione planetaria della pandemia – è un dato ampiamente acquisito ma privo purtroppo di rilievo in termini d’interpretazione dettagliata del fenomeno, molto meno acquisita è una metodologia di descrizione dei territori che esca dalla logica dell’isotropia, ovvero da una rappresentazione nella quale il tasso di diffusione del contagio X o la percentuale di contagiati sulla popolazione totale Y della Lombardia (o di una sua provincia) assuma nell’infografica un’articolazione più sofisticata che non un unico colore esteso acriticamente all’intera area di riferimento. Con un criterio che non cambia in funzione della scala di rappresentazione.
La vera sfida è quindi quella di superare le semplificazioni della rappresentazione su base statistica territoriale: risolvere le ambiguità tra le caratteristiche del fenomeno e quelle della sua base di rappresentazione. Il virus, così come la mobilità (la logica dell’infrastruttura), non è sensibile ai confini amministrativi. È ormai evidente (anche se non ancora dimostrato nelle sue implicazioni quantitative) che le dinamiche e le modalità della sua trasmissione siano condizionate da un combinato di fattori tra i quali le connessioni territoriali rappresentano un elemento decisivo, così come di conseguenza lo sono, a partire dall’inizio dei provvedimenti amministrativi per il contenimento della pandemia, le limitazioni allo spostamento e le chiusure dei confini. Ma è proprio l’eterogeneità dei provvedimenti adottati che dovrebbe consigliarci di affinare le analisi e di adottare tecniche di contenimento più efficaci fondate su mappature della propagazione dell’epidemia molto più dettagliate. Più sensibili alle caratteristiche delle infrastrutture di connessione territoriale e al grado di permeabilità delle diverse aree geografiche interessate.
Immagine di copertina: Eric Fisher, “Locals and tourists” (2010). Il caso di Venezia: in blu gli spostamenti dei locali, in rosso quelli dei turisti, in giallo quelli di entrambi (© OpenStreetMap)
Dopo alcune esperienze in Francia e Spagna, si laurea in architettura al Politecnico di Milano, dove poi consegue il dottorato di ricerca in Progettazione architettonica e urbana. All’attività di ricerca sulle forme dello spazio della città contemporanea e all’attività didattica (dal 2012 è professore a contratto presso la Scuola di Architettura del Politecnico di Milano) affianca il lavoro di progettista freelance e pubblicista, con interessi che spaziano dalla progettazione alla teoria, dalla ricerca storica sul “secondo modernismo” (anni cinquanta/settanta) all’architettura industriale. Dal 2010 al 2012 ha diretto la rivista «ARK», supplemento trimestrale di architettura dell’«Eco di Bergamo». Tra il 2013 e il 2014 collabora alla pagina culturale del «Corriere della Sera» (edizione Bergamo) e dal 2014 con «Il Giornale dell’Architettura» e con la Fondazione Dalmine