Villaggio Mukuni, Zambia (© Philipp Meuser)

Alla ricerca delle radici dell’architettura sub-sahariana

Alla ricerca delle radici dell’architettura sub-sahariana

Ma per definirne le basi teoriche occorre innescare un dibattito intra-africano

 

Published 26 aprile 2023 – © riproduzione riservata

È necessario affrontare alcune questioni prioritarie perché una teoria architettonica sub-sahariana non sia occasione di dibattito soltanto al di fuori dell’Africa. Si tratta di domande che possono fornire un quadro di sfondo ed elementi importanti per il dibattito contemporaneo su pianificazione, costruzione e ambiente. Possiamo anche ammettere che ci possano essere più possibili teorie sull’architettura sub-sahariana.

Per alcuni versi queste possono essere assimilate alla disciplina teorica (e occidentale) diffusa e praticata, ma in realtà rispondono anche a requisiti diversi, perché in Africa la conoscenza nel settore delle costruzioni è soprattutto una forma di conoscenza collettiva. Possiamo anche fare un passo ulteriore: in Africa parlare di architettura, come parte integrante di un dibattito teorico, significa toccare un tema di memoria culturale. Costruire la propria casa era, ed è, non solo un’azione necessaria per la sopravvivenza; rifletteva, e riflette, gerarchie sociali e diverse modalità di espressione artistica, come componente, spesso inconscia, della vita stessa.

 

Completare il progetto di decolonizzazione

La liberazione dal dominio politico straniero e dalle restrizioni culturali dell’epoca coloniale è un tema dominante in molte opere. L’architetto e artista nigeriano Ola-Dele Kuku ha presentato alla Biennale di Venezia 2016 un’insegna luminosa al neon con la scritta “L’Africa non è un paese” nel tentativo di attirare l’attenzione sul suo essere una delle regioni più culturalmente variegate al mondo. Nonostante questo, il continente ha spesso sofferto di una percezione poco differenziata di se stesso.

Eppure teorici come il camerunense Achille Mbembe credono che esista una coscienza comune africana. Il passato coloniale divide ancora i popoli in piccole élite e grandi masse povere; le culture condivise sono interrotte da linee arbitrarie imposte alla fine del XIX secolo. “Dobbiamo finalmente completare il progetto di decolonizzazione – ha scritto Mbembe – e superare i confini tracciati dalle potenze europee per creare un’identità panafricana”. Questo è tanto più importante, considerato che nel prossimo futuro un abitante del mondo su quattro sarà africano. Si è tentati così di sviluppare ulteriormente l’approccio sociologico e socio-teorico del panafricanismo come base per una teoria della cultura del costruire.

Ma come si traduce tutto questo nella pratica dell’architettura? Nelle aree rurali dell’Africa l’edilizia è tradizionalmente legata ai materiali a disposizione nelle vicinanze e agli strumenti che le comunità hanno sviluppato. Che ruolo può avere questo oggi? E che parte ha avuto nel passato? Proprio il passato dev’essere ulteriormente indagato: le pubblicazioni dell’era coloniale forniscono infatti lo sguardo occidentale dell’epoca, portando alcuni approcci ancora influenti oggi. Hermann Frobenius ha scritto nel suo studio del 1894 sui tipi edilizi africani: “Rispetto ai materiali da costruzione, gli africani usano tutto ciò che la natura ha da offrire in termini di piante e alberi utilizzabili nella zona. È necessario che ogni singola tribù aggiusti o modifichi la struttura e il rivestimento dei propri edifici. Le idee originali e il grado di perfezione che si potrebbe raggiungere con una certa costruzione derivano quindi dalla specificità della natura e da quello che mette a disposizione”.

 

Uno scambio di conoscenze attraverso miti, storie e canzoni

Come tutti i suoi colleghi, Frobenius si è basato sulle proprie osservazioni e sugli scritti di autori europei. Le informazioni ricevute dagli africani assumevano la forma di storie. I ricercatori europei hanno così documentato e cristallizzato le informazioni sull’Africa in pubblicazioni; si tratta di una forma di trasferimento della conoscenza sconosciuta nella maggior parte delle culture sub-sahariane per la scarsa diffusione della lingua scritta. Il libro è entrato nella cultura come deposito di conoscenza soprattutto nelle regioni ebraiche, cristiane e islamiche grazie alla stessa religione e al suo uso della scrittura.

I ricercatori europei del XIX secolo interpretarono la mancanza di documenti scritti come l’esito di popoli incolti o primitivi. La ragione condivisa ora è invece che le culture non alfabetizzate trasmettano la conoscenza di generazione in generazione sotto forma di miti, storie e canzoni, con il narratore o lo stregone a rivestire un ruolo centrale. Così come si tramandano usi e costumi di generazione in generazione, anche la conoscenza si tramanda a figli e nipoti. “In Africa, quando muore un anziano – disse lo scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ nel suo discorso del 1962 all’assemblea generale dell’Unesco a Parigi – una biblioteca va a fuoco”. Tali metodi di trasferimento delle conoscenze a volte portano ancora a parlare di analfabetismo. Eppure, le culture analfabete rivelano quanto siano vitali le altre forme. Questa articolazione della conoscenza in Africa infatti ha permesso di conservare specifici canali di comunicazione.

 

I fondamenti di una teoria architettonica sub-sahariana

Se esiste una teoria africana dell’architettura sub-sahariana, le sue radici possono quindi trovarsi nella lingua parlata. Ci sono descrizioni non africane che forniscono un quadro di base, ma una teoria architettonica di questo tipo deve ovviamente essere avanzata da autori africani. Va sottolineato che i tentativi fatti da Hermann e Leo Frobenius e Udo Kultermann erano basati su osservazioni e descrizioni soggettive.

Nnamdi Elleh è stato uno dei primi a innescare qualcosa che si avvicinasse all’inizio di un dibattito intra-africano con la sua monografia African Architecture: Evolution and Transformation, pubblicata nel 1997. Elleh ha diviso l’eredità dell’architettura africana in tre modalità: quella degli indigeni, emersa dalla storia umana e dai cambiamenti climatici; quella del capitalismo eurocentrico imposto agli africani dal colonialismo europeo; quella religiosa derivante dalla conversione al cristianesimo e all’Islam. Nel fare ciò ha fatto riferimento alle tesi avanzate dal politologo keniota Ali A. Mazrui, che ha discusso la possibile classificazione della cultura africana nei documentari The Africans: A Triple Heritage (BBC, 1986) e nel libro pubblicato con lo stesso titolo. Data la crescente influenza della diaspora africana, sia nel continente che fuori, potrebbe essere interessante completare l’eredità multiculturale con questa quarta forma di influenza ed eredità. Una teoria completa dell’architettura africana contemporanea deve ancora essere scritta. Il fatto dimostra, ancora una volta, che lo scambio culturale di conoscenze in Africa avviene secondo regole specifiche, insite nella storia speciale di questo continente.

 

Il dibattito sulla città

Ciò vale anche per il dibattito sulla città. L’architetto angolano e professore universitario Ângela Mingas affronta il concetto di semiotica urbana, ovvero lo studio della città attraverso segni, simboli e il loro impatto sociale. Mingas ha criticato in particolare come viene affrontato il tema urbano negli insediamenti informali nelle città africane in rapido sviluppo: “Non possediamo nemmeno la terminologia per parlare di questo tipo di nuove agglomerazioni. Abbiamo bisogno di rivalutare la cultura e la nostra lingua per trovare le parole che descrivano ciò che si presenta davanti a noi”. Nei suoi seminari a Luanda, Mingas e i suoi studenti tentano di descrivere fenomeni urbani di fronte ai quali politici e urbanisti si sentono impotenti. Si tratta di un prezioso contributo per sviluppare ulteriormente il discorso (parlato e scritto) sull’ambiente costruito e per fornire alle giovani generazioni un vocabolario utile nelle loro vite professionali. “Stiamo tentando – dice – di inventare una forma di urbanità basata sulla filosofia bantu”.

Un altro approccio alla formulazione di una teoria dell’architettura africana è fornito dall’etno-matematico statunitense Ron Eglash, che riconosce algoritmi basati sulla ripetizione di frattali nei motivi e negli ornamenti delle culture africane. Tali riferimenti sono sempre meno, come Eglash ha dimostrato a proposito di un insediamento in Zambia, definito tipico dell’Africa sub-sahariana. “In Europa e in America vediamo spesso città costruite secondo uno schema a griglia, con strade diritte e angoli retti. Al contrario, gli insediamenti tradizionali africani tendono a utilizzare strutture frattali: cerchi di abitazioni circolari, muri rettangolari che racchiudono rettangoli sempre più piccoli e strade dove ampi viali si diramano in minuscoli percorsi con sorprendenti ripetizioni geometriche. Questi frattali indigeni non si limitano all’architettura. I loro modelli si trovano in diversi disegni e sistemi di conoscenza”. Eglash si riferisce al matematico francese Benoît Mandelbrot, che ha coniato il termine frattale a metà degli anni settanta e che ha dimostrato il rapporto dei motivi geometrici con le forme naturali.

 

Teoria architettonica: dal concetto al sistema di pensiero

Se si vuole formulare una teoria architettonica africana, è fondamentale partire da una domanda: quali termini usano le persone in Africa per riferirsi all’architettura? Con oltre 2.000 lingue parlate nel continente, qualsiasi tentativo di rispondere porta ad un livello di complessità quasi impossibile da gestire, trasformando la teoria in un compendio linguistico piuttosto che in un inventario architettonico di stampo teorico.

Chiunque segua le discussioni sull’architettura africana conosce l’elenco delle parole chiave che ricorrono con maggiore frequenza. Sono termini che raramente provengono dall’architettura stessa o dall’urbanistica, spesso hanno origini sociali o politiche: partecipazione, colonialismo, povertà. Un mero riferimento alla costruzione non costituisce infatti una teoria architettonica. Eppure, questi termini difficilmente possono essere pensati soddisfacenti senza una relazione con il progetto e la costruzione.

La partecipazione della popolazione inizia con il processo di pianificazione dei quartieri; i progetti possono avere successo quando i futuri utenti sono coinvolti. Il colonialismo ha lasciato un’eredità di cultura edilizia che ricorda l’oppressione e la sofferenza, comunque vengano interpretate. Tuttavia questo termine può anche essere interpretato come nuovo colonialismo, che restituisce la diffusione di ampi progetti da parte d’investitori stranieri. La povertà può essere combattuta costruendo alloggi a prezzi accessibili. In sintesi queste parole possono e devono essere collegate all’architettura e all’urbanistica.

Allo stesso modo termini come comunità ed esigenze sociali sono ricorrenti nelle discussioni sull’architettura africana. Sono legati alle consolidate immagini di come le persone sviluppano la loro dimensione comunitaria: seduti accanto al camino per preparare il cibo con gli altri o per riscaldarsi (in alcune zone), dove la vicinanza a un fuoco significa protezione dalla fauna selvatica. Vitruvio pensava che l’origine della costruzione umana fosse la necessità. I suoi principi dell’architettura – firmitas, utilitas, venustas – si ritrovano in quasi tutte le culture costruttive. Tuttavia, sembrano non svolgere quasi alcun ruolo nelle discussioni sull’architettura africana, pur essendo evidenti e presenti.

Questa osservazione sottolinea la tesi stereotipata secondo cui l’edilizia indigena è così strettamente intrecciata con la vita e la routine quotidiana che nessun linguaggio o complesso sistema di pensiero ha potuto svilupparsi. Questo ha a che fare con la relativa semplicità degli edifici indigeni: soddisfano tutti i requisiti architettonici ma sono soggetti a un processo permanente di riparazione a causa del modo effimero in cui sono stati costruiti. È spesso la struttura a prevalere nell’immagine esterna. La disposizione degli edifici all’interno della proprietà e delle stanze stesse corrisponde a requisiti spaziali minimi. Tutti i popoli decorano i loro edifici.

Può essere utile dunque specificare parametri diversi per una teoria dell’architettura indigena africana rispetto a quelli per l’architettura europea o islamica. La regolarità e l’armonia della natura e dell’arte possono senza dubbio riportare al termine estetica. Quindi l’estetica della protezione, l’estetica della cultura e l’estetica della conoscenza possono fornire una necessaria base teorica? Ritrovarsi in una comunità e guardare a questi fatti con sguardo rinnovato è ciò che può aprire la porta ad una maggiore emancipazione dell’architettura africana.

 

 

 

Architectural Guide Sub-Saharan Africa. Dom Publishers ha pubblicato nel 2021, con la cura di Philipp Meuser e Adil Dalbai, una guida (nella Architectural Guide Series) sull’architettura africana: “Architectural Guide Sub-Saharan Africa”.
L’opera – in inglese – offre un ricco sguardo sulla storia, l’identità e le contraddizioni dell’architettura africana sub-sahariana. È strutturata in 7 volumi:

Introduction to the History and Theory of African Architecture

Western Africa from the Atlantic Ocean to the Sahel

Western Africa along the Atlantic Ocean Coast

Eastern Africa from the Sahel to the Horn of Africa

Eastern Africa from the Great Lakes to the Indian Ocean

Central Africa from the Atlantic Ocean to the Great Lakes

Southern Africa between the Atlantic and Indian Oceans

Articolata per schede, la guida copre 49 paesi e 850 tra edifici e progetti, per oltre 3.400 pagine. Ha l’ambizione di essere, anche, un racconto corale con la partecipazione di 350 autori internazionali su temi specifici raccolti in 200 testi.

 

Autore

  • Philipp Meuser

    Architetto tedesco, ha studiato in Germania e a Zurigo concentrandosi in particolare sulla teoria e sulla storia dell’architettura. È intensamente impegnato in attività pubblicistiche e curatoriali. Nel 2005 ha fondato la casa editrice Dom Publishers, specializzata nella diffusione di esperienze architettoniche e di studi urbani su scala internazionale. Ha un’attività professionale a Berlino con lo Studio Meuser Architekten BDA, fondato nel 1996 con Natascha Meuser.

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