Sissi Cesira Roselli, Sant’Andrea della Zirada, Venezia 2014

Spazio, città e società nelle chiese chiuse di Venezia

Spazio, città e società nelle chiese “chiuse” di Venezia

Tra riciclo e patrimonio, trenta chiese non più adibite al culto hanno permesso d’indagare il loro ruolo nella dimensione didattica dell’architettura

 

Published 10 giugno 2021 – © riproduzione riservata

Tra il 2014 e il 2018 è stata svolta un’indagine sulle chiese “chiuse” presenti nel centro storico di Venezia. L’oggetto della ricerca è stato anche tema di alcuni laboratori di progettazione e tesi di laurea. Di seguito si enunciano le ragioni che hanno portato ad individuare nelle chiese quell’architettura necessaria per riflettere su spazio, città e società, sia sul piano dell’analisi che in quello della sperimentazione didattica.

Innanzitutto, la scelta è stata dettata dalla necessità di saper vedere altro, ovvero oltre la storia, la forma e la tipologia dell’oggetto già note e, persino, anche se solo a tratti, oltre lo spazio, per mettere a fuoco le ragioni, i modi e il portato del viaggio che la stessa architettura oggi propone.

 

PRIN “Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio”

Questo percorso inizia nel solco del paradigma del re-cycle, con il Progetto di ricerca di interesse nazionale Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio (2013-16), nell’ambito di un tracciato teorico di rifondazione dei principi progettuali alla luce delle rovine e macerie della precedente modernità, alla ricerca di possibili nuove terre nell’esistente.

Il riuso è sia una teoria sfaccettata che una pratica comune ed evidente, la cui pervasività è fondata sul suo continuo ondeggiare tra pensiero e prassi, nel suo essere intuitivo e concreto e al contempo culturalmente stratificato. Se inizialmente si è volto lo sguardo al territorio e ai resti di forme d’industrializzazione di un recente passato, è sembrato poi necessario porre l’attenzione al centro, a Venezia sempre più vuota di persone, di comunità, di attività, sempre più assediata da visitatori fugaci ed esponenzialmente sempre più vacua. La ricerca di spazi abbandonati con i quali misurare l’estensione e i limiti del re-cycle porta così all’incontro con trenta chiese presenti nel centro storico, “chiuse”, ovvero non più adibite al culto, la cui porta, prevalentemente serrata, rende inaccessibili.

 

Il vuoto e la riconfigurazione

L’esercizio di riconfigurazione, non tanto della forma dell’architettura quanto del “vuoto” che essa contiene, è articolato in molteplici aspetti, più complesso rispetto al ripensamento di altri spazi dimenticati. La complessità risiede in una moltitudine di ragioni: da tempo la cultura progettuale non si confronta con il monumento e con il simbolo; questi manufatti non possono essere considerati nella propria autonomia o solitudine perché sono stati e sono cardini del sistema morfologico urbano; la ragnatela giuridica che conforma il destino di questi vuoti solleva a sua volta differenti questioni; già solo la visita di questi luoghi richiede una revisione degli strumenti d’indagine perché il dato percettivo e culturale non possono essere assimilabili ad una mappa.

Il vuoto che oggi “occupa” l’interno di questi edifici sollecita un ripensamento dell’idea di viaggio, di visita, di conoscenza del tangibile e di quanto può essere solo immaginabile. Lo stesso vuoto non va riempito ma in alcuni casi solo implementato di architettura effimera o singoli elementi (un pavimento, una scala…) per essere ancora visitabile. Quanto accade poi nel centro storico lagunare non è eccezionale, è solo eccessivo, è solo più intensamente manifesto di quanto già sta avvenendo altrove. Venezia è sia concreta città, sia cumulo di desideri, paure, destini, risposte che anticipano e rendono palese l’ubiquità di questioni proprie dello spazio, dell’architettura e di quanto rappresenta il termine “città”.

Eredità, uso e racconto sono individuati quali campi e dispositivi d’indagine da rimettere in atto ma anche da riconfigurare. Lavorare sull’esistente implica appunto ragionare anche sui modi per attraversarlo, sui nessi tra parole e cose che impostano da sempre il modo di trovare altri mondi ignoti in quanto si conosce già. “Eredità” sostituisce il termine “patrimonio”, “uso” avvicenda la parola chiave “funzione”, il racconto ritorna ad essere un primato del fare architettura a prescindere dalla presenza di quest’ultima, come già promettevano le mirabilia urbis, precise e fantasmagoriche guide della città eterna.

Le ipotesi di riutilizzo, investigate nelle sperimentazioni didattiche, sono impostate su una riflessione in merito alla vocazione culturale delle chiese, si muovono all’interno dei vincoli linguistici e spaziali dettati dall’architettura, e di quelli giuridici; ma sono soprattutto lo strumento, in forma di racconto, per ragionare sui modi e sugli spazi del progetto contemporaneo a partire dal ruolo di monumenti vuoti. Venezia, prospettandosi come paradigma di un futuro equilibrio tra socialità, natura, ecologia, economia della cultura, è il luogo nel quale assodare concretamente se la vita, e non solo gli oggetti, se quanto connota un’idea di città, e non solo i suoi muri, possano essere ancora considerati forme senzienti di cultura. Il patrimonio che storicamente Venezia ha consegnato al futuro non è solo la sua architettura, ma anche il modo di gestire lo spazio e di abitarlo, così come le strategie per sopravvivere agli umori del territorio e per salvarsi con esso. Inseguendo questa direzione, il destino e il pregresso dell’immenso deposito veneziano sono proiettati al domani, cercando pieghe di mutamenti latenti che suonano come conferme ri-evocate.

 

Eredità, uso e racconto

In uno specchiamento certamente prefigurato, se eredità, uso e racconto sono i tre strumenti o le tre chiavi d’accesso ad un insieme di edifici silenti, ad un insieme carico di storie passate e in essere, non possono che essere anche i sottintesi delle tre teorie cercate, perché la teoria è sempre un progetto e non un semplice risultato. I tre strumenti-indizi conducono appunto e infine a un altro trittico composto da monumenti, vuoti e riti, ovvero costituito da questioni in essere e da interrogare. Queste tre condizioni-azioni, spesso considerate materia assodata, sono guardate, visitando gli spazi silenziosi delle chiese, come traguardi; sono lette, assimilate, riscritte quali cardini teorici dell’architettura da rimettere in uso, prerogative per “recuperare” il manufatto-città.

 

Marc Augé, Le temps en ruines. Galilée, Paris, 2002

Marc Augé, L’impossible voyage. Le tourisme et ses images. Payot & Rivages, Paris, 1997

Il racconto delle ricerche e di alcune sperimentazioni didattiche è restituito nel volume di Sara Marini, Micol Roversi Monaco, Elisa Monaci, Guida alle chiese “chiuse” di Venezia, Libria, Melfi 2020

Autore

  • Sara Marini

    Architetto, dottore di ricerca, è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia. Dal 2020 è responsabile dell’unità di ricerca Iuav per la ricerca nazionale PRIN “Sylva. Ripensare la «selva». Verso una nuova alleanza tra biologico e artefatto, natura e società, selvatichezza e umanità”. Dal 2019 è direttore di “Vesper. Rivista di architettura, arti e teoria | Journal of Architecture, Arts & Theory”, Dipartimento di Culture del progetto, Iuav. Nel 2016 ha esposto il progetto “Italophilie” presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi e nel 2018 ha esposto “Casa nera” nel Padiglione Italia alla 16. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia.

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