Una, nessuna e centomila

Una, nessuna e centomila

Da Plinio al Great Green Wall, la cultura architettonica e urbana africana tra sorprese e paradossi

 

Published 17 gennaio 2024 – © riproduzione riservata

È il momento dell’Africa?, ci chiedevamo retoricamente aprendo la nostra inchiesta. Alcuni mesi e dieci articoli dopo la risposta non può che essere affermativa: con sempre più intensità l’Africa sta conquistando una centralità nella cultura internazionale del progetto, in termini d’impatti e influenze. Ma le narrazioni prevalenti – spesso caratterizzate da pietismo o forme di neocolonialismo – non aiutano a raggiungere un adeguato grado di consapevolezza del ruolo possibile, tanto all’interno quanto all’esterno. Gli autori che ci hanno accompagnato in questo percorso hanno raccontato condizioni frammentate e spesso paradossali. In cui il protagonismo di progettisti si sviluppa sullo sfondo di realtà fragili e, insieme, dinamiche.

 

Una diaspora di architetti ibridi

Non solo i “grandi” nomi, ma un nutrito elenco di architetti che si distinguono per la qualità della ricerca. Mediamente giovani, con storie personali di migrazioni e di andate e ritorni: tengono rapporti con il paese di origine ma hanno educazione (spesso) ed esperienze all’estero, soprattutto in Europa e in Nord America. Pare questo l’identikit contemporaneo del progettista architettonico africano.

Alcuni nomi si stanno guadagnando posizioni di primo piano: da Atelier Masōmī a Koffi & Diabaté. Ciò che distingue questi studi dai loro colleghi occidentali è (anche) una capacità di spaziare più liberamente tra forme rappresentative e artistiche diverse: il progetto architettonico è una delle espressioni della propria poetica, spesso integrato da installazioni, lavori pittorici, sculture, opere letterarie e musicali. Sono percorsi e abilità trasversali che trovano terreno fertile nel rapporto – sicuramente più intenso in un mercato edilizio con meno sovrastrutture – con la cultura e l’identità locale, anche in termini di tecniche costruttive e materiche. Che trova una maggiore possibilità di disegnare e produrre artigianalmente alcuni elementi e dettagli, grazie anche ad aspettative diverse della committenza e ad una normativa che consente più ampie libertà d’azione. È una tendenza che produce un’ibridazione di linguaggi che affascina proprio per il contrasto con la realtà professionale occidentale, così caratterizzata invece da specialismi e limiti. E che va oltre il progetto: anche in altri campi stanno attualmente riscuotendo un buon successo globale molti artisti africani della diaspora, ad esempio nella musica e nella letteratura.

 

Sovrastrutture e narrazioni

Questa disintermediazione dei processi creativi si sviluppa in realtà che spesso però sono caratterizzate da numerose strutture intermedie capaci d’influenzare il mercato edilizio e i processi di trasformazione urbana.

Organizzazioni internazionali, fondi di cooperazione, ONG ma anche governi esteri rappresentano una fetta consistente della committenza architettonica africana. E questo genera, pur in maniera differenziata, non pochi effetti distorsivi. Sono numerosi gli approcci che non pare eccessivo definire “neocolonialisti”: progettisti e imprese occidentali che lavorano in città e comunità africane con spirito solidaristico ma anche come vetrina. Negando in questo modo proprio quel rapporto con il luogo e con l’identità locale che dovrebbe essere la cifra più autentica della propria azione.

Lo stesso atteggiamento si ritrova in molti dei rapporti di collaborazione accademica tra scuole e università. L’accaparrarsi territori fisici (come nel drammatico fenomeno del land-grabbing) e virtuali, nel continente africano, pare essere questione ancora tremendamente attuale. Ne ha parlato Federico Rampini nel suo recente La speranza africana (Mondadori, 2023, 348 pagine, 20 €). I tre aggettivi che il giornalista mette in copertina (La terra del futuro: concupita, incompresa, sorprendente), sembrano rappresentare in maniera efficace i paradossi di questo continente. Il libro esprime da una parte la necessità di una narrazione diversa e alternativa, che sappia andare oltre il racconto dei fenomeni tragici (bellici o ambientali) comunque ampiamente presenti, dall’altra l’imponente trasformazione manifatturiera che caratterizzerà i prossimi decenni e su cui numerose potenze mondiali stanno investendo in maniera spesso spregiudicata. Poco presenti in questo processo (per una mai risolta questione con il passato coloniale, dice Rampini) i paesi europei. Tra questi l’Italia che proprio ad inizio gennaio 2024 ha approvato il cosiddetto Piano Mattei, un contenitore di programmazione e progettualità per il continente africano. Tanto ambizioso nelle premesse quanto vago e vuoto, al momento, nelle sue azioni.

 

«L’Africa genera sempre nuove cose»

La citazione pare sia di Plinio il Vecchio e viene spesso rilanciata quando si parla di Africa. Tra queste “nuove cose” c’è sicuramente la massiccia migrazione interna, dalle campagne alle città. Non la tanto urlata – spesso per ragioni politiche populiste – “invasione” verso l’Europa. Che non c’è e non esiste, come nemmeno una “bomba demografica” pronta ad esplodere.

L’Africa è un continente con fortissimi movimenti interni – causati da povertà, conflitti, effetti dei cambiamenti climatici e trasformazioni economiche – che, all’interno appunto, ridefinisce continuamente equilibri territoriali e sociali. Per questo ciò che succede nelle città (spesso sul crinale tra programmazione spaziale e processi informali) riveste grande interesse a livello globale, anche nella capacità di trattare il tema ambientale in maniera adattiva.

È africano il più ambizioso piano di riforestazione, quello – in corso, pur tra comprensibili complessità – del Great Green Wall (ne abbiamo parlato qui), una fascia alberata tra Oceano Atlantico e Golfo Persico, capace di combattere, frenandola, la desertificazione che avanza.

Anche grazie alla partecipazione attiva del sindaco di Freetown Yvonne Aki-Sawyerr alla COP28 di Dubai ha raggiunto notorietà internazionale il progetto, altrettanto ambizioso su scala locale, FreetownTheTreeTown: piano che prevede di collocare milioni di piante in aree libere e pubbliche della capitale della Sierra Leone. Un tentativo di contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici incentivando usi collettivi degli spazi aperti e valorizzando le percorrenze pedonali e ciclabili, oggi poco utilizzate. Sono interventi emblematici e simbolici di una ricetta africana per realtà urbane fortemente sollecitate in termini ambientali, ma disponibili – per tradizione e cultura – a progressivi adattamenti alle condizioni che cambiano.

 

In copertina, un progetto emblematico: il complesso religioso e culturale Hikma di Dandaji in Niger, di Atelier Masōmī con Yasaman Esmaili (foto di James Wang)

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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