Sandy Attia: costruiamo insieme la scuola di domani
La co-fondatrice dello studio Modus Architects ha all’attivo diverse realizzazioni basate su collaborazioni interdisciplinari
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«Non devono essere più pensate come posti miserabili, le nostre scuole devono avere identità». Con il suo linguaggio diretto («Scusate, sono americana, l’italiano lo parlo un po’ così»), Sandy Attia va subito al punto: le scuole italiane hanno bisogno di architettura per diventare luoghi di riferimento per la collettività. Lo fa appoggiandosi su un bagaglio di esperienze importanti (8 progetti scolastici realizzati in Italia con il suo studio Modus Architects), da una prospettiva particolare (quell’Alto Adige, teso tra Italia e Mitteleuropa, all’avanguardia in tema di realizzazione di spazi per la collettività) e ormai con una consuetudine su questi temi, sviluppata anche attraverso la ricerca e la partecipazione a commissioni.
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Iniziamo dalla mostra organizzata lo scorso anno a Bolzano, intitolata “Designing School Together”.
Together vuole dire che quando si progetta una scuola nuova o se ne deve ristrutturare una esistente tutti devono essere coinvolti. E quando dico tutti, intendo dal dirigente scolastico all’istituzione pubblica.
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Il solito mantra della partecipazione come condizione per un buon progetto?
No, non dico che i processi partecipativi portano sicuramente buoni risultati. In questi anni abbiamo visto di tutto, esperienze finite bene e altre male. Ma sicuramente quando mancano le figure cardine di un processo qualcosa prima o poi andrà storto.
Proviamo ad elencarle, queste figure.
Il dirigente scolastico, che interpreta e pone le esigenze dell’insegnamento e della formazione. Rappresenta gli insegnanti, spiega la sua idea di scuola. A Bolzano abbiamo fatto un progetto per una scuola dell’infanzia e un’elementare nello stesso lotto. Stesso modo di progettare, stessi interlocutori. Ma in una delle due scuole mancava il dirigente. Quando è arrivato, a lavori ultimati, sono scoppiati i problemi. Perché per lui il progetto era sbagliato. Qualche mese fa ero in commissione in un bando per una scuola a Palermo: un progetto importante, con tanti soldi a disposizione. Anche lì mancava il dirigente. Come si fa a fare un buon progetto se nessuno ha espresso nel bando le esigenze della scuola?
Spesso però proprio i dirigenti sono un freno all’innovazione tipologica. Non è così?
Non credo, anzi. Ho trovato spesso persone di straordinario valore, con enorme cultura. Sentirli parlare e spiegare la loro scuola mi commuove.
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Allora è colpa degli architetti se i risultati sono spesso deludenti?
Anche su questo ho una convinzione: in Italia ci sono tanti bravissimi progettisti. Basta guardare il valore dei progetti di concorso. Sono spesso fantastici.
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Ma basta un bravo architetto per fare una bella scuola?
No, non basta. Come dicevo, servono quattro figure. E la seconda è quella del pedagogista. Ho lavorato e lavoro spesso con Beate Weyland: lei è in grado di esprimere il concept pedagogico della scuola, di pensare al rapporto tra lo spazio e l’educazione. Architetto e pedagogista devono collaborare per elaborare un documento preliminare che, nel caso di un concorso, dev’essere inserito nel bando: anche poche pagine sintetiche che spiegano a chi deve disegnare gli spazi cosa si aspetta chi poi quegli spazi dovrà abitarli. Ad esempio questo mancava nel concorso “Scuole Innovative” del MIUR.
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Come si fa a produrre questo materiale?
Ci sono molte tecniche. Con i workshop per esempio: in pochi giorni tutte le componenti della scuola sono chiamate a lavorare insieme per produrre l’idea. Ci sono esperienze ormai consolidate di questo approccio. Ho seguito come consulente il concorso di progettazione “Torino fa scuola”, promosso dalla Fondazione Agnelli in collaborazione con la Compagnia di San Paolo. Era un laboratorio dove tutti, dai bambini agli adulti, portavano il loro contributo. Ecco, questo è il modo di progettare scuole che mi piace.
Incontri dove non può mancare, dicevamo, l’amministrazione pubblica.
La scuola è un pezzo importante della comunità. Oggi tanti parlano, con una definizione che forse non è così convincente, di civic centre. Nella scuola tutti i cittadini si devono riconoscere, sindaco e assessori devono supportare il progetto, seguirlo, promuoverlo, difenderlo.
Fin qui abbiamo parlato molto del come, meno del cosa. Cosa serve alle scuole italiane?
Il governo Renzi ha avuto il merito di proporre una nuova agenda per l’edilizia scolastica e alcuni architetti, come Renzo Piano, hanno proposto dei progetti di scuola ideale. Ecco, penso che fosse una risposta sbagliata ad una domanda giusta. Non dobbiamo pensare a modelli di scuola ideale, ma a progetti diversi, ognuno con una sua identità. Noi proviamo a lavorare in questo modo: guardiamo il luogo, gli edifici esistenti, gli spazi aperti, cerchiamo di capire cosa serve alla scuola. Il progetto nasce da lì, non da idee preconcette: devo usare quel materiale, devo raggiungere quella forma.
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In questi percorsi di progettazione partecipata quali sono le esigenze più ricorrenti da parte di chi userà la scuola?
Identità. Significa costruire una scuola radicata nella comunità che la ospita. Che diventa parte integrante del paese o della città. Gli studenti vogliono liberarsi dall’idea di stare in aula tutto il giorno seduti al banco. Vogliono più contatti con il mondo. E anche gli insegnanti vogliono questo: non essere dei “controllori” ma lavorare in uno spazio più dinamico ed interattivo, che rispecchi un modello d’insegnamento meno frammentato, anche rispetto alla rigidità dell’orario.
Quindi non più il modello corridoio-aula.
Certo che no. Del binomio corridoio-spazio di educazione alternativa si parla ormai da tempo. Il tema oggi è di trasformarlo anche architettonicamente, vista la sua potenzialità dimensionale, in uno spazio che supera i confini della funzione specifica, aprendolo a orizzonti ampi di utilizzo possibile e soprattutto trasformandolo in un’occasione di spazialità complessa. Anche la qualità dell’architettura è educazione. Dare risposta alle metafore spaziali (“ho la testa tra le nuvole”, “mi sento a terra”, “sono in un vicolo cieco”) deve diventare elemento su cui meditare al fine di produrre forme e materiali con contenuti evocativi. Altri ambienti possono aspirare, con la stessa logica, a diventare i nuovi cardini della scuola. Penso alla mensa che può essere un atelier del gusto, aperta ad un più vasto vocabolario di utilizzo: non solo spazi dove mangiare ma laboratori polifunzionali, biblioteche erranti, lounge area, luoghi di libertà. Certamente queste intenzioni devono tenere conto di mille regolamenti e prescrizioni, ma finché non si avvia una vera volontà di cambiamento, le prescrizioni sovrasteranno e regoleranno una scuola standard immutabile.
Abbiamo detto che l’Alto Adige è una piccola isola felice in cui, da anni, si lavora con buoni risultati sull’innovazione dell’edilizia scolastica. Il resto d’Italia?
Secondo me si sta muovendo in maniera efficace. Ho conosciuto i progetti ISCOLA della Regione Sardegna, per esempio. Anche queste ottime esperienze, sebbene occorra aggiustare alcune cose: quando fai concorsi non puoi chiedere la consegna di un progetto esecutivo solo perché il codice appalti lo impone. Troppe relazioni tecniche inutili e una gran quantità di disegni non aiutano la decisione. Serve capire se il progetto della scuola è corretto, architettonicamente e urbanisticamente. Il resto delle carte può arrivare dopo. Questo tipo di concorso punta ad un valore prestazionale che non è sinonimo di qualità. Tornando all’Alto Adige, è positivo che per un concorso vengano richiesti obbligatoriamente un modello, almeno in scala 1:500, e al massimo due tavole A0, con una breve relazione descrittiva. Questo permette di scegliere con lucidità e chiarezza il miglior progetto. È il sistema che viene adottato in tutta Europa.
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Restiamo all’estero. Cosa vediamo?
Dobbiamo distinguere. Conosco bene gli Stati Uniti, da cui provengo. Lì è un mondo diverso. Ad eccezione di alcune scuole private, dove ci sono enormi disponibilità finanziarie, le scuole sono standardizzate, la qualità architettonica scadente. L’architetto è marginalizzato.
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E in Europa?
Dobbiamo guardare al Nord Europa, ai paesi scandinavi in particolare. Ci sono scuole sperimentali dal punto di vista pedagogico, con un percorso che mira a scardinare addirittura l’insegnamento organizzato per materie. Per questo troviamo edifici molto interessanti. Una cultura a cui dobbiamo guardare per imparare.
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MoDusArchitects è uno studio di Bressanone fondato nel 2000 da Matteo Scagnol (Trieste, 1968) e Sandy Attia (Cairo, 1974). L’ambizione è praticare progetti di architettura con approccio eterogeneo che unisce i diversi sfondi culturali e formativi dei partner. I progetti completati spaziano dalle infrastrutture agli edifici collettivi, fino agli interni, e includono commissioni pubbliche, istituzionali e private. Molti di questi lavori sono stati realizzati in Alto Adige. L’ufficio ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui l’Honorable Mention per la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana nel 2015 e 2012, il Premio Oderzo nel 2014 e il Premio Internazionale Piranesi nel 2014. Il lavoro di MoDusArchitects è stato esposto in diverse edizioni della Biennale di Architettura di Venezia, compresa quella del 2018 (nel Padiglione Italia).
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Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale