Samuele Borri: più apprendimento che insegnamento, ce lo chiedono gli studenti

Samuele Borri: più apprendimento che insegnamento, ce lo chiedono gli studenti

 

Il direttore del gruppo di lavoro sulle architetture scolastiche dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa analizza l’evoluzione dei modelli formativi, nel rapporto tra spazi e tempi dell’apprendimento

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«Da studente ho vissuto in una scuola dove non si doveva parlare e collaborare con i compagni di classe durante l’orario delle lezioni. Oggi pensiamo che si debbano realizzare ambienti educativi dove invece il confronto reciproco è una delle esperienze più importanti». Samuele Borri, 53 anni, ingegnere, dirige per INDIRE (l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa, ente di ricerca del MIUR, con sede a Firenze) il gruppo di lavoro sulle architetture scolastiche. Il suo è un punto di osservazione privilegiato: da circa 7 anni la ricerca ha conosciuto un forte impulso, tradottosi in pubblicazioni, convegni, partecipazione sempre più attiva nei concorsi di progettazione, in una logica sinergica di scambio con i progettisti.

 

Il vostro lavoro si è concretizzato in un Manifesto, ambizioso fin dal titolo, 1+4 spazi educativi per la scuola del terzo millennio. Leggo le vocazioni di questi spazi: esplorazione, di gruppo, individuale, informale, agorà. La scuola può essere tutto questo insieme?

Proponiamo un modello di scuola non più fondato sulla dimensione, quasi da cellula autonoma e indipendente, della singola aula servita dal corridoio. Quell’ambiente ben si adattava ad un modello pedagogico pensato sulla trasmissione unidirezionale delle conoscenze, dal docente allo studente. Un modello nato molti anni fa per soddisfare le esigenze di una società prevalentemente analfabeta, in cui la scuola era l’unico luogo dove si accedeva al sapere e i docenti erano gli unici depositari della conoscenza. Questa situazione si è progressivamente modificata nel tempo. Ormai da diversi anni, la società esprime esigenze diverse, la scuola non è più l’unico luogo o strumento di apprendimento per bambini e ragazzi.

Deve competere con altri luoghi di educazione, fisici e virtuali?

Certamente sì. Serve proprio lavorare su un’offerta di spazi e di ambienti efficienti, dove moltiplicare le possibilità di uso, su cui innestare una rinnovata visione pedagogico-didattica: aperta al territorio, attenta all’evoluzione delle tecnologie, con spazi diversificati e flessibili nelle soluzioni. Così si può dare risposta ai bisogni formativi di oggi e domani in una logica di complessità e ibridazione. Questo percorso peraltro mi pare coerente con quanto succede con altre tipologie architettoniche.

 

Ovvero?

Guardiamo alle stazioni ferroviarie. Fino a non molto tempo fa erano solo luoghi dove prendere il treno, con un grande spazio dedicato alla biglietteria dove i viaggiatori si mettevano in coda nell’unico luogo dove era possibile acquistare il titolo di viaggio. Oggi le biglietterie tendono a scomparire, il biglietto si acquista in tanti modi diversi e le stazioni sono diventate luoghi dove ci vengono offerte attività ed esperienze non necessariamente legate al viaggio in treno.

 

Ma nelle stazioni c’è anche una dimensione economica a spingere verso le trasformazioni.

Anche nella scuola c’è chi spinge verso la trasformazione, verso la richiesta di un servizio al passo con i bisogni educativi e formativi. La richiesta nasce dal basso, è sentita da chi la abita e la frequenta tutti i giorni.

Da tutte le sue componenti?

Sicuramente dagli studenti, che nella nostra ottica sono e devono essere gli attori principali, il focus, l’obiettivo. Ci chiediamo e cerchiamo di capire cosa chiedono gli studenti alla loro scuola. È un cambio di prospettiva non banale, perché il modello tradizionale è basato sull’insegnamento e meno sull’apprendimento. L’aula, la cattedra, le sedie e i banchi sono pensati per quel vecchio modello di trasmissione della conoscenza.

Ci sono differenze tra studenti di varie età?

Direi di no su questo aspetto: dalle elementari alle superiori è forte l’esigenza di rinnovamento, pur con caratteristiche evidentemente diverse. Non ci occupiamo direttamente di ambienti universitari, ma anche lì mi pare di vedere una certa dinamica nell’ottica di un maggior protagonismo dello studente.

Ma la scuola non è fatta solo di studenti.

Certo che no, ma la scuola è dedicata a loro. Il dialogo con i docenti è ovviamente articolato; essi generalmente sono ancorati ad un modello trasmissivo, ne conoscono l’importanza e i pregi. Allo stesso tempo ne percepiscono molto bene le attuali difficoltà, la scarsa presa sugli studenti e i limiti che tale modello porta con sé. Fanno normalmente un po’ di fatica a condividere il nuovo approccio che proponiamo ma, una volta compreso, decidono di mettersi in gioco, lo sperimentano e difficilmente tornano indietro.

 

E come si pongono dirigenti scolastici e genitori?

Anche per i primi non è facile cambiare abitudini consolidate. Però hanno un approccio positivo. I genitori invece restano generalmente molto più sorpresi. Ma è comprensibile: è esattamente la generazione che ha vissuto la scuola come un insieme di aule in cui si entra da un corridoio e all’interno delle quali passi tutta la giornata seduto allo stesso banco.

 

Tuttavia, progettare ex novo o ristrutturare un edificio scolastico significa anche confrontarsi con gli enti locali.

Sono realtà in cui facciamo molta fatica a farci capire. Di solito i tecnici comunali o quelli degli enti superiori, come le province, hanno in mente un modello di edificio scolastico vecchio, ancorato allo schema aule e corridoi. E fanno di tutto per realizzarlo, anche nella convinzione – che reputo non del tutto corretta – che questo sia l’unico modo per rispettare le normative vigenti. Ogni tanto leggendo alcuni documenti preliminari alla progettazione trovo visioni di scuole di 40 anni fa, non certo per gli studenti dei prossimi 30 anni. Questo è paradossale.

 

Come avete sviluppato queste idee?

Da una parte con un intenso lavoro di ricerca su quanto succede all’estero, soprattutto nei paesi del Nord Europa. Dall’altra andando nelle nostre scuole, osservandone le dinamiche, confrontandosi con docenti e dirigenti scolastici, intervistando chi frequenta gli ambienti formativi. Insomma, siamo operativi sul campo.

Sembra che questa spinta al rinnovamento si sia sviluppata solo recentemente in Italia.

Le molte risorse economiche destinate all’edilizia scolastica e messe a disposizione dai governi degli ultimi 5 anni hanno finalmente obbligato gli enti locali ad impegnarsi nelle progettazioni di nuove scuole e nelle ristrutturazioni di quelle esistenti. Su questo fronte la nostra unità di ricerca si è ritagliata un ruolo, sia in termini culturali che operativi.

Dove potete intervenire, e con quali esiti?

Interveniamo a monte dei percorsi, partecipando alla scrittura dei bandi. E a valle, stando nelle giurie, cercando di scegliere i progetti che meglio interpretano queste esigenze di rinnovamento. Direi che esiti sono positivi: qualche progetto è in corso di sviluppo, altri si sono già concretizzati. Come la scuola di Città di Castello: nel 2012 il preside ci ha conosciuto alla fiera ABCD di Genova dedicata alla didattica, apprezzando le nostre idee. Così ha saputo modificare un progetto che era già stato approvato. Ha dimostrato che si può intervenire su una scuola esistente, modificandone la struttura per renderla funzionale ad una didattica in cui lo studente è protagonista attivo. Allo stesso tempo i docenti hanno modificato l’impostazione delle loro attività centrandole sull’apprendimento e meno sull’insegnamento.

 

Succede in tutte le regioni italiane?

Non vedo particolari territorialità. Ci sono zone dove troviamo tanta sensibilità, penso ad esempio alla Sardegna o alle aree del Centro Italia colpite duramente dai recenti terremoti. Lì la tragedia è un’occasione per aggiornare certi modi d’intendere la scuola. In altre zone invece non c’è riscontro e non riceviamo risposte.

 

Non abbiamo ancora parlato del rapporto con i progettisti.

Decenni di immobilismo e di scarsa sperimentazione hanno prodotto un’enorme perdita di cultura sul tema del progetto nell’edilizia scolastica. Però ora notiamo un rinnovato interesse da parte dei professionisti che studiano, leggono, si aggiornano. Abbiamo organizzato e siamo stati invitati a diversi eventi rivolti a loro e dedicati alle architetture scolastiche. Le progettazioni e gli esiti di alcuni concorsi recenti – come quelli di L’Aquila, Pisa, Palermo – dimostrano che gli architetti contemporanei stanno capendo che è necessario muoversi verso forme rinnovate per le nostre scuole.

 

L’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire) è il più antico ente di ricerca del Ministero dell’Istruzione. Oltre alla sede centrale a Firenze, conta tre nuclei territoriali a Torino, Romae Napoli. Fin dalla sua nascita, nel 1925, l’Istituto ha l’obiettivo di accompagnare l’evoluzione del sistema scolastico italiano investendo in formazione e innovazione e sostenendo i processi di miglioramento della scuola. Sviluppa nuovi modelli didattici, sperimenta l’utilizzo delle nuove tecnologie nei percorsi formativi, promuove la ridefinizione del rapporto fra spazi e tempi dell’apprendimento e dell’insegnamento con un focus, che si è sviluppato particolarmente negli ultimi anni, sulla ricerca di soluzioni spaziali innovative.

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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