Santuario dell’Assunta, Montoso, Bagnolo Piemonte (Cuneo), 1963-67. Gabetti e Isola, con G. De Ferrari, L. Re (Archivio Gabetti e Isola)

Sacro come misericordia

Sacro come misericordia

L’architetto dovrebbe essere come l’uomo con la brocca d’acqua del Vangelo di Luca, che attraversa paesaggi e città portando sapere

 

* Published 21 dicembre 2022 – © riproduzione riservata

I paesaggi

Appena entrati in città vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà, egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata”. Nel racconto di Luca lo spazio è descritto dal movimento di “moto al luogo” attraverso una successione di paesaggi: entrare nella città, percorrerla, arrivare ad una casa, salire.

Seguendo l’immagine evangelica, mi piacerebbe pensare noi architetti in questo continuo andare verso il progetto studiando paesaggi e città: vorremmo forse assomigliare a quell’uomo che porta una brocca d’acqua, che potrebbe contenere quei saperi che possono dissetare le nostre aride terre.

Il paesaggio che si srotola orizzontale davanti al cammino del Messia, nella narrazione di Luca, è uno spazio assorto, non scenografico, non numinoso, segnato dalle acque di un torrente, da una barca su un lago, dalla soglia del Tempio, da quegli oliveti, quei vigneti, da quei campi di grano che saranno Pane e Vino. Sullo sfondo, nel profilo di un monte, si stagliano croci.

Il paesaggio biblico verticale qui ci appare rivissuto ma liberato da crolli babelici, fulmini, battaglie, immani onde, aridi deserti, raggi abbaglianti che squarciano nuvole buie. Non mi è facile immaginarlo diverso da quello illustrato da Gustave Doré – ma c’è anche la letizia del Cantico dei Cantici.

Il paesaggio del Nuovo Testamento è anche paesaggio lontano da quello ellenico, tutto metafisico, governato dal mito, ritagliato sull’immagine di divinità invadenti che litigano tra di loro, con la natura e con gli uomini, che impediscono ad Ulisse il ritorno a casa.

 

La materia

I linciatori, in cerchio, circondano la vittima, l’adultera, hanno le pietre in mano, il Messia seduto su di un sasso traccia con il dito segni sulla sabbia: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. Le pietre cadono a terra e, una ad una, formano un cerchio: lo spazio della violenza e del sacrificio diventa quello del perdono.

Mi piacerebbe pensare questo cerchio e queste pietre come un archetipo delle nostre chiese e delle nostre soglie.

Chiese di pietra, pietre lasciate cadere dai lanciatori, pietre d’inciampo; la pietra è l’essere, è la nostra terra, il fondo che ci sostiene, ma è anche il divenire perché roccia levigata da acqua e vento; pietra che segna confini e soglie. “Pietro su questa pietra”, pietra angolare. Forse, come dice Dietrich Bonhofer, se nella secolarizzazione Dio diventa più Dio anche la pietra diventa più pietra?

Chissà perché quando usiamo nelle nostre costruzioni la pietra ci sentiamo più sicuri?

A Montoso (Cuneo), nostro primo progetto di chiesa, la pietra è stata apparecchiata “a sacco”: sono cioè strutturali, una sull’altra. Abbiamo prolungato il tetto in lose, che segue la pendenza della montagna per formare un grande portico/sagrato. La facciata non c’è: una vetrata completamente apribile si affaccia sulla radura e sui boschi.

Mi piace pensare che le parole, i canti, i pensieri, il Logos, il Verbo, dalla chiesa si riversino a valle dilagando nella pianura.

 

Archetipi

L’architettura è arte sporca che deve essere autoriflessiva, deve esprimere autonomia, ma anche eteronomia nel confronto di ciò che le sta intorno, deve incarnarsi nella vita quotidiana e quindi mettere in gioco se stessa, pena la sua fine.

I molteplici lunghi fili che si dipanano, spartiti in varie matasse, da una comune origine prometeica – tekné ed ethos – per poi saldarsi tra le pagine dell’Encyclopédie, che alla voce éclectisme presenta le immagini delle arti e dei mestieri che riconducono alle relative prassi.

Così, anche oggi le nostre architetture incontrano quell’intrico di fili. Fili che ci giungono da lontano e s’intrecciano, fin da un antico radicamento ormai “obnubilato”, che s’ibridano in nodi e tessuti, e infine si manifestano nei manuali, negli strumenti del mestiere e nelle cose della vita.

 

Maestri?

Siete autorizzati a chiedere al vecchio architetto, al professore – qualcuno ancora ci chiama Maestri – di esporsi, dire quale architettura, quali paesaggi, quale mondo ci attende. Purtroppo, in tanti anni non sono mai riuscito a professare una teoria, pormi come esempio, vaticinare un futuro. E tanto meno un’utopia. Questa mancanza mi dispiace, ma ho sempre preferito rimettermi in gioco davanti all’avventura di un nuovo progetto.

A scuola mi sistemavo al tavolo degli studenti affrontando temi complessi, concreti, cercando faticosamente con loro nuove vie.

Mi sono presto allontanato dai miei Maestri, senza complessi edipici, ma con quella pietas che a loro si addiceva.

Questo solo posso dire: il progetto di architettura è, dovrebbe essere, lo sporgersi oltre il già detto e il già fatto, apertura alla vita.

Sta a noi cercare e disegnare uno spazio ospitale e quotidiano anche se grande e “addobbato”, silenzioso e pacificato, lontano da quei gesti, dai quei segni, da quelle grida che hanno segnato architetture antiche e recenti.

 

* Testo rielaborato dall’autore e tratto da frammenti di sue precedenti pubblicazioni:
     “Il paesaggio, la violenza, il sacro”, in Sergio Pace, Luca Reinerio, Architetture per la liturgia. Opere di Gabetti e Isola, Skira, Milano 2005, pp. 185-95
     “La soglia dell’ospitalità”, in Goffredo Boselli (a cura di), Viste da fuori. L’esterno delle chiese, Atti del XIV Convegno liturgico internazionale, Bose 2-4 giugno 2016, Edizioni Qiqaion, Comunità di Bose 2017, pp. 275-87
     Archetipi abitati, Aión Edizioni, Firenze 2022

Autore

  • Aimaro Isola

    Nato a Torino il 14 gennaio 1928; già professore ordinario di Composizione architettonica e Progettazione urbana, è professore emerito al Politecnico di Torino, nonchè accademico nazionale di San Luca a Roma e socio nazionale dell’Accademia delle Scienze di Torino. Dal 1950 lavora con Roberto Gabetti nello studio Gabetti e Isola. Con la scomparsa di Gabetti (2000), apre lo studio Isolarchitetti (con Saverio Isola, Flavio Bruna, Michele Battaggia, Andrea Bondonio, Stefano Peyretti).

    Tra le principali opere per la liturgia: monastero delle Carmelitane a Quart (1984-89); chiesa della Santa Famiglia a Palmi (1996-2006); centro parrocchiale a Roccabruna (1993-2001); chiesa di San Giovanni Battista a Desio (1994-99); complesso parrocchiale di Santa Maria in Zivido a San Giuliano Milanese (1998-2008); chiesa parrocchiale della Risurrezione di Gesù a Pizzo (2022); Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Oppido Lucano (2018-in corso).

    Tra i suoi scritti recenti: Violenza nell’architettura (Aión 2004); Anche le pietre dimenticano (Aión 2012); Sulle tracce del «Genius Loci» (Accademia delle Scienze di Torino 2017); Anche le architetture ci guardano? (Giappichelli 2018); Ai confini del giardino (Aión 2019); La barba di Leonardo (Aión 2020); Archetipi abitati (Aión2022)

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