Reparti pediatrici, questione di “accoglienza”
Negli ospedali sono le parti più sensibili nell’integrazione di forme diverse di cura
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Published 15 novembre 2022 – © riproduzione riservata
Il ricovero in ospedale di bambini e ragazzi (fino ai 18 anni) comporta attenzioni particolari che trovano riferimento, in materia di diritti, già a partire dagli anni ottanta, nelle Carte e Convenzioni internazionali e nazionali. In Italia il ricovero in età pediatrica si è affermato storicamente in istituzioni specializzate che oggi fanno parte del Sistema Sanitario Nazionale, in rete con i reparti pediatrici di ospedali generali e con le strutture di prossimità. I ricoveri avvengono spesso in urgenza, e sono più frequenti per bambini tra 1 e 4 anni. La durata della degenza è generalmente limitata (tra i 4 e i 7 giorni) ma, soprattutto negli ospedali specializzati, ci sono bambini e ragazzi che restano in ospedale anche per settimane e che devono tornarvi più volte per cicli di cura. Specifica nell’ospedale pediatrico è la presenza di un genitore (o tutore), anche durante i periodi di emergenza pandemica. I pazienti e le loro famiglie vengono spesso da lontano, da altre regioni o da altri paesi.
I progressi in medicina e nella protezione sociale hanno permesso di prevenire e curare molte malattie anche al di fuori dell’ospedale ma, in particolare in età pediatrica, è fortemente aumentata la richiesta di cure specialistiche per patologie croniche o legate a fattori ambientali e sociali. In questo contesto un’alleanza terapeutica tra famiglia e ospedale è fondamentale; così, la “centralità della persona” si declina anche come “centralità della famiglia”, intesa quale protagonista nella cura.
Sentirsi accolti e sapere accogliere
Varcare la soglia dell’ospedale con mamma o papà, entrare nella camera assegnata, lasciare i fratelli, i compagni, anche se per pochi giorni, ed essere inserito in un “percorso di cura” non è così facile se non c’è chi sa “accogliere”. Anche lo spazio può essere accogliente, quanto più lo è tanto più il bambino, il ragazzo, il genitore ricevono un messaggio di attenzione verso di loro. La cura dello spazio è parte della cura delle persone e suggerisce comportamenti gentili e disponibilità verso l’altro. L’accoglienza è creare le condizioni per l’incontro, non è solamente dare informazioni alla reception e lungo i percorsi, è una disposizione che coinvolge tutti, gli stessi pazienti e familiari, stimolati al rispetto e alla collaborazione. In un ospedale pediatrico il tema della “umanizzazione” della cura e degli spazi ha un focus particolare nella realizzazione di una comunità accogliente. Non solo quindi un problema tecnico, gestionale e del progetto; è una cultura, nel senso che riguarda un sistema di conoscenze, di comprensione e il modo in cui queste diventano un habitus all’interno dell’ospedale: sapere accogliere, sentirsi accolti.
Uno spazio diffuso
Si tratta di dare spazio alla vita – che continua nonostante il ricovero in ospedale – che in età pediatrica è fatta di fantasia, curiosità, affetti, amicizie. La promuovono soprattutto gli operatori che svolgono le molte attività educative, di gioco, incontro, svago. Si tratta di professionisti, anche quando operano su base volontaria, che trasformano gli spazi sanitari in spazi di vita, che demedicalizzano l’ospedale.
Il paradigma della “umanizzazione” dell’architettura ospedaliera nell’ospedale pediatrico passa da qui. L’architetto deve sapere di dimensionamenti, di layout e flussi, di tecnologie e materiali, di colori, di arredi, di luci, ma uno spazio “umano” è uno spazio corale e in divenire, alla cui realizzazione contribuiscono in primis le persone che lo abitano. E poiché in un ospedale, pediatrico per giunta, “niente può essere dato per scontato, niente può essere archiviato come modello da ripetere, ma tutto, ogni volta, va pazientemente impostato adeguandolo a quel bambino, a quella malattia, a quei genitori” (lo scrive Massimo Resti, direttore del Dipartimento Specialistico Interdisciplinare all’AOU Meyer di Firenze, in uno dei saggi del libro indicato in fondo a questo articolo), accoglienza vuol dire, da un lato, spazi adattabili, flessibili, interattivi e, dall’altro, spazi capaci di parlare quando non c’è un senso al dolore, alle paure.
Architettura dell’accoglienza
Così la terapia dell’accoglienza richiede il progetto di un’architettura organizzativa e spaziale complessa e sempre in evoluzione. Nei nuovi ospedali pediatrici, in particolare di area anglosassone, questa si materializza in spazi di family service e in grandi hall all’ingresso.
Nella cultura italiana gli ospedali pediatrici vanno soprattutto mettendo in atto un sistema articolato, diffuso e adattabile, fatto di molte attività (alcune istituzionali) e differenti spazi (dedicati e no), fisici e digitali. Le attività di prima accoglienza e di supporto durante il ricovero sono ospitate nei Family Center (ad esempio quello di recente realizzazione del Meyer o dell’Istituto Gaslini di Genova). Si tratta di strutture dal carattere domestico, familiare, articolate in spazi di socializzazione, spazi riservati, spazi per gli operatori. Nei reparti di degenza ci si preoccupa di realizzare spazi per la famiglia, dove rilassarsi e conoscersi, dove fruire di alcuni servizi essenziali (un caffè, una lavatrice-asciugatrice), fino alla dotazione di camere con servizio e una cucina in comune per le mamme di neonati in terapia intensiva (le Family Room in questi ultimi anni realizzate al Sant’Orsola di Bologna, al Cesare Arrigo di Alessandria, al Dipartimento della donna e del bambino di Padova, tra gli altri).
Sempre nei reparti di degenza si trovano spazi educativi (per fare scuola, per laboratori di gioco e creatività e spazi per il tempo libero ad uso esclusivo degli adolescenti). Al Pronto soccorso l’attesa al triage è uno spazio articolato per non disturbare e non essere disturbati, ma sempre in continuità con chi può dare informazioni (come al Regina Margherita di Torino). Là dove l’intervento medico può fare più paura, realtà virtuali e pareti decorate raccontano storie di avventura. Gli ambienti connettivi invitano alla scoperta, un ragazzino può muoversi su più piani dell’ospedale o affacciarsi su giardini in quota, come nel progetto per il nuovo Istituto Burlo Garofolo a Cattinara, Trieste. Infine gli spazi all’aperto sono pensati come spazi inclusivi, accessibili e fruibili in sicurezza, anche da parte di bambini e ragazzi con disabilità gravi, come ad esempio nei due parchi gioco realizzati nelle sedi di Palidoro e di Santa Marinella del Bambino Gesù.
Segni empatici
Visitando gli ospedali pediatrici italiani si possono osservare anche i “segni” non fisici dell’accoglienza: come l’architettura dialoghi con le attività, con la presenza – accanto a bambini e ragazzi – di un insegnante, un clown, un musicista, un artista, un cane. Si superano i confini della propria camera, del luogo dell’intervento guardando verso una finestra, oppure immergendosi in realtà virtuali o in stanze multisensoriali e interattive. Evidenze scientifiche dimostrano il ruolo che un progetto sensibile ha nella terapia, nella riduzione dello stress, nella facilitazione delle relazioni, nell’empatia degli ambienti di cura, in luoghi e in modalità non sempre previsti dal progetto ma creati dalle persone che frequentano gli spazi.
Architetto, è stata professore ordinario di Tecnologia dell’Architettura ed è adesso professore onorario presso l’Università di Firenze. Membro del Centro interuniversitario di ricerca Sistemi e Tecnologie per le Strutture Sanitarie, Sociali e della Formazione -TESIS, del Centro Nazionale per l’Edilizia e la Tecnica Ospedaliera -CNETO, della Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura -SITdA. Ha pubblicato su temi di architettura per la salute in libri a carattere manualistico e scientifico e su riviste internazionali. Nel luglio del 2022 ha pubblicato insieme a Paolo Felli il libro L’ospedale pediatrico: una comunità accogliente (La Nave di Teseo, in collaborazione con Fondazione Meyer, Collana La Cura, 528 pagine, € 22) con la presentazione di Gianpaolo Donzelli e la prefazione di Alberto Zanobini.