Quarantine Urbanism, la mutazione che viviamo e pensiamo in ritardo
Oggi la questione urbana pone 3 temi: la connotazione etica del legame tra corpo e spazio, il ripensamento del locale fuori dalle scorciatoie conservatrici e la necessità di nuove infrastrutture di cura
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Ciò che si sta agglutinando attorno al Covid-19 sono argomenti tenuti insieme da una visione epidemiologica dello spazio in cui l’attenzione è, ancora una volta, posta sul complesso sistema di relazioni che segnano le nostre pratiche dell’abitare e di produzione spaziale. Nell’ampia discussione pubblica che si è aperta, preoccupano le ragioni e le conseguenze dello scambio relazionale e in particolare gli effetti prodotti dalle condizioni biologiche e chimiche che le accompagnano. Questa visione e tensione progettuale può essere definita Quarantine Urbanism. Nella sua forma più elementare esprime una strategia di separazione e di contenimento. Implica controllo, sorveglianza, sui soggetti e sullo spazio. Un analogo atteggiamento si è dato anche in passato, ma i modi con i quali siamo stati abituati abituati a definire, interpretare e resistere alla sorveglianza, sono oggi cambiati radicalmente.
Lo stress prodotto dal distanziamento spaziale, le forme di commercio nate dalla fusione tra piattaforme di vendita on-line e logistica dei sistemi di consegna contribuiscono a conservare la coesione del tessuto sociale. Nella città della quarantena i negozi sono chiusi, le strade sono vuote e tuttavia i flussi di merci e alimenti continuano. Il Silent trade non rappresenta più qualcosa di fragile ed evanescente comparato alla città robusta, quanto piuttosto il contrario. La quarantena può essere un lusso. Magari una condizione per estetizzare il vuoto delle città come oggetto distopico di contemplazione, evocando cinicamente «il romanticismo delle rovine» o lo sguardo coloniale che osserva i «resti di una civiltà perduta», o addirittura un’anacronistica rivalutazione delle tante forme di dispersione insediativa. Ma per chi sperimenta la povertà e il disagio abitativo non c’è nessun paesaggio spirituale o pastorale-biucolico. Solo una città più ingiusta.
Quarantine Urbanism è un neologismo troppo facile. Come tanti altri in passato. Non c’interessa il gioco di parole, né la possibilità di proporre una narrazione estetizzante del dramma della pandemia. Dietro lo scarto lessicale di termini che non vogliono più dire quel che dicevano solo qualche tempo fa (urbanità, pubblico, intimità, densità, ma anche borghi, soglie, balconi…), ci sembra più importante cogliere condizioni che sono radicalmente cambiate nel definirsi di questioni spaziali, etiche e di giustizia sociale. Il punto è, a nostro avviso, soffermarsi sulla quarantena per tentare di decodificare quelli che altri avrebbero chiamato «una nuova questione urbana», ragionando progettualmente nelle direzioni che apre. Ne individuiamo 3, attorno alle locuzioni vulnerabilità differenziale, localismo/nazionalismo, etica della cura.
1. vulnerabilità differenziale
Essa porta in evidenza innanzitutto il rapporto tra corpo e spazio. Corpo: sano, malato, morto, chiuso in sé stesso, nelle sue ossessioni, desideri, patologie. Corpo non come spazio interiore, né entità puramente sociale. Ma corpo immanente, concatenamento di forze, flussi, passioni che si consolidano e incessantemente trasformano. È attraverso il corpo che abitiamo le nostre case, come fino a poco tempo fa abitavamo (anche) gli spazi urbani. Quest’asse mette in gioco, di nuovo, la domanda spinoziana «cosa può un corpo?», ricollocandola entro le retoriche della Quarantine Urbanisme.
2. localismo/nazionalismo
Le forme che la pandemia genera nell’economia, nelle relazioni sociali, nella cura sono perlopiù forme di prossimità. Anche le azioni di governo richiamano continuamente una nozione di locale che certo non resuscita la stagione del cosiddetto sviluppo locale. I dispositivi spaziali della pandemia hanno potenziato nuove domesticità, hanno radicalizzato immobilizzazioni e soprattutto hanno reso opachi i grandi spazi urbani che già erano marginali. Il locale trova una diversa necessità. Un locale che si moltiplica e frequentemente si dilata all’intero paese. I rischi dello scivolare nelle due opposte condizioni antiliberali e conservatrici del localismo e del nazionalismo costituiscono un secondo asse per riflettere sulla nuova questione urbana.
3. etica della cura
La pandemia fa emergere un’etica della fragilità che apre a una politica della cura. Quest’ultima si concretizza primariamente nella richiesta di welfare, servizi sanitari, ammortizzatori sociali, ma porta con sé la possibilità di una politicizzazione della riproduzione sociale come terreno di contesa per il ripensamento della società stessa nella sua totalità. Un deflagrare che rimette in gioco la possibilità di ripensare la casa come infrastruttura di cura. Lungo questa direzione si apre un terzo asse che riconnette questione urbana e molteplicità/mobilità dei diritti.
Quarantine Urbanism, tra cliché e dejà vu
La questione urbana oggi mette al centro la connotazione etica del legame tra corpo e spazio, il ripensamento del locale fuori dalle scorciatoie conservatrici e la necessità di nuove infrastrutture di cura che abbiano il coraggio di ripercorrere diversamente vecchie strade. Tutto questo richiede una progettualità non difensiva. Quarantine Urbanism è da un lato un cliché. Uno dei molti neologismi che sembrano graffiare il reale, lasciandoselo troppo spesso sfuggire. Una scorciatoia. Dall’altro si pone come un dejà vu che pretende di raccontare il presente con l’uso di un termine medico logoro. Domani ci saranno forse i concetti per dire questa mutazione che sta accadendo in noi. Per comprenderla e dirla. Oggi no. Oggi la viviamo e la “pensiamo in ritardo”.
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Cristina Bianchetti insegna Urbanistica al Politecnico di Torino. Si occupa di temi relativi all’abitare e alla critica del progetto urbanistico contemporaneo. La presenza in ambito culturale è testimoniata da numerose pubblicazioni con editori italiani e stranieri. È stata coordinatore per l’Area dell’architettura nella VQR 2011-2014, e dal 2016 è presidente del Nucleo di valutazione dell’Università IUAV di Venezia.
Camillo Boano è professore ordinario presso il Dipartimento interateneo di Scienze, progetto e politiche, territorio del Politecnico di Torino e presso la Development Planning Unit dell’University College of London, dove svolge attività di ricerca sul rapporto tra teoria critica e progettazione urbana, con particolare attenzione all’informalità, ai campi e alle forme di displacement. Attualmente sta lavorando a una serie di progetti di ricerca interconnessi in America Latina, Sud-Est asiatico e Medio Oriente sul tema dell’abitare e del divenire delle città.
Antonio di Campli è ricercatore in urbanistica presso presso il Dipartimento interateneo di Scienze, progetto e politiche, territorio del Politecnico di Torino. Ha insegnato e svolto attività di ricerca in varie scuole di architettura tra Italia, Svizzera, Colombia ed Ecuador. Le sue ricerche recenti si concentrano sui processi di ristrutturazione urbana e rurale in contesti europei e latinoamericani e sui fenomeni urbani amazzonici.