Quarantena in casa: lo psicodramma dell’architetto
Uno sguardo leggero e ironico sulla quotidianità dei professionisti italiani, in una fase difficile e di cambi epocali
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Parallelamente ai drammi umani degli architetti (più o meno famosi), deceduti o malati, e dei prevedibili scossoni economici ad emergenza conclusa (o comunque archiviata la fase più drammatica), questa “sospensione” del tempo normale illumina, in maniera plastica, virtù e difetti del nostro mondo professionale. A partire dai luoghi frequentati.
Lo studio-in-casa
Spesso – giustamente – catalogato come un fattore di debolezza nell’organizzazione del lavoro italiano, lo studio-in-casa (o in cantina, nella mansarda, nella serra in giardino) diventa uno straordinario alleato: valvola di sfogo dal tran tran quotidiano, occasione per mantenere una parvenza di normalità, luogo per portare avanti, per quanto possibile, le pratiche. Perché fa ovviamente fatica doppia chi è invece costretto a lezioni o riunioni nei corridoi dove la connessione wi-fi regge, completamente immersi nella caotica convivenza con figli (che non sentono le parole della maestra attraverso il tablet scassato), compagni, genitori, nonni, cani affamati nel momento meno opportuno o gatti che decidono di esprimere il proprio affetto sdraiandosi lascivi sulla tastiera del pc.
Lo sfondo più adatto
Ne esce, cercando qualche lato divertente in questa fase di tragedie vere, un ricco mosaico con gli sfondi dietro le nostre facce in videoconferenza che diventano i nuovi biglietti da visita. Ci sarebbe da farne un approfondimento sociologico: c’è chi, quello sfondo, lo cura con attenzione maniacale, mettendo ben in vista sulla libreria le copertine da mostrare (e magari da cambiare, a seconda dell’interlocutore), correggendo la luce, provando e riprovando l’inquadratura. Dalla parte opposta, c’è il disinteressato che offre alle sue spalle (consapevolmente o meno) il più banale e ordinario repertorio delle pareti italiane (scorci su cui Luigi Ghirri si sarebbe soffermato con grande maestria nei suoi interni).
Videochiamate come l’Amuchina
Videochiamate che sono rapidamente diventate, in questo mese, un must irrinunciabile. Quasi come l’Amuchina. Se escludiamo i relativamente pochi architetti abituati ad usarle per riunioni di lavoro, sono l’America per tanti. Insieme al caffè del mattino è d’obbligo correre ad attivare l’account Microsoft Teams o Zoom. Ci fosse una statistica ad hoc, scopriremmo che una discreta quantità di ore lavorative sono state impiegate dagli architetti italiani (e dai loro collaboratori) per recuperare nomi utente e password di profili Skype aperti anni addietro, e mai utilizzati fino al Coronavirus. Una scelta di necessità oggi che però segnerà anche un non banale cambio nei nostri atteggiamenti. Perché spesso è nelle crisi che si trovano le energie per migliorare. E allora – al netto della condivisibilissima retorica sul fatto che “il progetto si fa al tavolo, con i sopralluoghi nei cantieri e nei siti di produzione, scambiandosi esperienze, visitando i luoghi e gli edifici” – queste trasformazioni resteranno nel corpo della professione: sempre più incontri (e magari anche occasioni culturali) migreranno verso una dimensione virtuale. Modificando così anche – e in meglio, con benefici effetti per l’ambiente e la soddisfazione di Greta Thunberg – la gestione di tempi e movimenti. Con qualche conseguenza anche per il settore dell’abbigliamento: continueranno a vendere maglie, camicie e giacche, un po’ meno i pantaloni. Sembra vadano benissimo quelli del pigiama, tanto dalla web-cam non ti vede nessuno, dalla cintola in giù. Almeno fino a quando non sei costretto ad alzarti per traslare il gatto.
Si aprirà così una partita non banale, ovvero la gestione di dati e documenti da remoto. Perché chi appunto non ha lo studio-in-casa (e non lavora per grandi società, maggiormente organizzate in questo senso), si deve inventare nuove modalità di condivisione; le quantità abnormi di giga caricate in fretta e furia su chiavette da portare a casa non sono ovviamente una risposta adeguata. Accesso ai server, software su terminali diversi, mail professionali consultabili su devices mobili (cosa non così scontata a quanto pare, anche in uffici pubblici imballati) sono un fattore di debolezza enorme, un gap tecnologico che l’emergenza ha messo drammaticamente a nudo.
Del doman non c’è certezza (e qui non vogliamo fare dell’ironia)
Detto del come, c’è il cosa. Perché è ovvio che queste notti di quarantena sono agitate. Per quello che succede oggi e per quello che succederà, o non succederà, domani. Tutti, o quasi, i 150.000 architetti italiani si aspettano dolorose scosse di assestamento. E l’impressione – al di là delle speculazioni intellettuali delegate ai volti più noti della professione e della cultura – è che gli architetti “non tocchino palla” sui campi dove si attuano le scelte importanti. L’imbarazzante indecisione tra Governo e Regioni sulla chiusura degli studi professionali, le voci un po’ traballanti delle associazioni, lo scollamento tra le diverse componenti ne sono la prova. Come anche la discussione degli ultimi giorni su tempi e modalità della riapertura: si parla di cantieri, non dei professionisti che quei cantieri hanno il diritto-dovere di dirigere.
E tu, che architetto sei?
Ma, nell’immediato, c’è anche un mega-vuoto da riempire. Con attività quasi completamente ferme, cantieri sbarrati, uffici chiusi e clienti in altre faccende affaccendati, l’architetto cerca di reinventarsi le giornate. E su questo – diciamocelo pure con orgoglio – la categoria sa esprimersi in maniera straordinaria. Ci siamo divertiti ad immaginarne 10 diverse tipologie umane ai tempi del virus:
1. C’è l’architetto diligente, che ne approfitta per riordinare scrivanie, affrontare pratiche “che non mi ricordavo nemmeno più esistessero” sepolte dalla polvere, liberare cassetti e ripiani. E, se avanza del tempo, studiare l’ultima versione del software di modellazione 3D o frequentare un corso on-line di russo commerciale. Inappuntabile.
2. C’è l’architetto previdente, che si butta sui crediti di aggiornamento professionale come se non ci fosse un domani. Poco importa che la prossima scadenza sia tra tre anni, e che magari proprio questa emergenza farà slittare i termini. Deontologicamente perfetto.
3. C’è poi l’architetto colto, che legge i libri della biblioteca (ovviamente trovandone più d’uno ancora incellophanato), si avventura virtualmente in mostre e archivi resi disponibili da numerose istituzioni (merita una citazione il MoMA di New York), scarica avidamente gli e-book regalati dalle case editrici. La cultura come medicina. Salutista.
4. Lo step successivo è l’architetto scrittore. Quale momento migliore per dare sfogo al proprio talento inespresso? Il risultato sono le redazioni inondate da proposte di articoli. E, a medio termine, un’impennata di libri pubblicati. Bulimico.
5. E, a proposito, di cucina, c’è l’architetto gourmand. Era abituato a intrattenere i suoi follower sui social con immagini di materiali, dettagli, particolari, colori. Ora, costretto a casa, si rifugia nella produzione – e quindi nella spasmodica condivisione – di un altro tipo di composizione: quello di colazioni, pranzi e cene. Mago dell’impiattamento.
6. Fa ampio uso d’immagini anche l’architetto iconografo. Ha iniziato con infinite serie di scatti dalla finestra di casa. Poi è passato a pubblicare le straordinarie fotografie di piazze e strade vuote. Che sono – va detto – una delle eredità più suggestive che il lock-down ci stia regalando. Visionario.
7. L’architetto intellettuale invece si cimenta col tema della città e della casa “ai tempi e dopo il COVID-19”. Scrive pensieri sul dove passerebbero la loro quarantena i maestri dell’architettura. Ragiona e discute sulle trasformazioni dei nostri spazi di vita: ovvero il plausibile campo di battaglia della cultura architettonica. Sul pezzo.
8. L’architetto giocatore invece si svaga, ma senza perdere il punto di vista disciplinare. Dall’archi-cruciverba alla tombolata per architetti (tutto vero!), in rete c’è solo l’imbarazzo della scelta per svagarsi, ma senza sentirsi in colpa. Meglio della palestra.
9. L’architetto mondano non si perde nessuno degli eventi on-line che tanti organizzano, dal Maxxi (rassegna #iorestoacasa) alla Triennale di Milano (con il nuovo Decamerone): inaugurazioni, conferenze, interviste, proiezioni di film. Per l’aperitivo, invece, si rivolge al collega gourmand. Non serve l’autocertificazione.
10. L’architetto negazionista, invece, si comporta come nulla fosse. Lavora le solite 12 ore al giorno, telefona, manda e-mail, progetta, compila computi metrici. Nemmeno un plissé. Prontissimo a ripartire. Ma lui, forse, non si è mai fermato. Asintomatico.
Immagine di copertina: disegno di Tommaso Balladore
Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale