Quando la produzione persegue l’ideale democratico
Tra strategie vecchie e nuove, la parola chiave è appartenenza: dei dipendenti all’impresa e dell’impresa alla città
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Published 13 aprile 2021 – © riproduzione riservata
L’attenzione progettuale alle esigenze di committenza e dipendenti, si tratti di ampliamenti e riqualificazioni di siti già attivi o di costruzioni ex novo, connota le attuali esperienze architettoniche di più alto profilo, testimoniando le più recenti evoluzioni degli spazi per il lavoro. Istanze di sempre s’intersecano ad altre nuove, conseguenza di un modo altrettanto nuovo d’intendere gli spazi del lavoro, negli ambienti della produzione e in quelli della direzionalità, assecondando mutamenti socio-economici, tecnologici e produttivi sui quali anche la pandemia in corso sta influendo, aprendo a un ribilanciamento delle priorità.
Le migliori ricerche progettuali puntano dunque a trovare un equilibrio tra quei concetti cari a chi fa azienda e architettura oggi, e altri che, riconducibili a buone pratiche del passato, non paiono più così attuali, ma su cui forse è bene tornare a ragionare, per riportarli tra le priorità della committenza, ancor prima che dei progettisti. In quest’ottica, oltre che di tecnologie e materiali – necessari per garantire comfort e salubrità, nel quadro dell’imprescindibile sostenibilità dell’intervento – si parla di “umanizzazione e domesticità”, di “empatia e spirito di appartenenza”, di “valorizzazione identitaria”. Si persegue, cioè, l’alto ideale della “fabbrica democratica”.
Democrazia e luoghi di lavoro
L’apparentamento tra democrazia e luoghi del lavoro fa parte del vocabolario delle teorie e delle esperienze che, soprattutto nell’Italia del secondo dopoguerra, vogliono ridisegnare non solo l’industria e l’economia ma, più in generale, anche la società. In quel momento la ricostruzione fisica del paese è accompagnata – con risultati alterni, ma certo con tanta buona volontà iniziale – da una ricostruzione immateriale di pratiche, di concezioni, di diritti comunitari e individuali. Ciò porta a una nuova comprensione del lavoro, e altrettanto di architettura e di città, in cui la fabbrica è un organismo sì economico ma anche sociale, secondo un ideale neo-umanista in cui essa supera il ruolo di manufatto specialistico, di tipo edilizio, per rispondere a una vocazione basata su una precisa assunzione di responsabilità.
Nei casi più riusciti, o almeno più ambiziosi, lo scarto tra utopia e realtà è colmato da azioni multiscalari affidate agli esperti delle diverse discipline coinvolte, dirette da una committenza particolarmente illuminata. Sodalizi, questi, che talvolta arrivano a formare un’élite capace di trasformare l’iniziale ambizione in azione concreta, dando corpo all’ideale con la professionalità tecnica. L’approccio multiscalare comporta, tra le altre cose, una pianificazione urbana dello stabilimento diversificata a seconda dei caratteri e delle politiche della singola impresa.
Talvolta – si pensi ad alcuni interventi dell’Eni – si punta alla realizzazione di enclave o microcosmi dove tutto il quartier generale è organizzato come un nuovo centro in periferia o fuori dalle città. Altrove – è il caso di Fiat – si prevede invece una maggiore permeabilità rispetto al tessuto esistente, preferendo agire per innesti e satelliti all’interno dei confini urbani, e contribuendo a creare quella cosiddetta comunità – tanto cara a imprenditori come Adriano Olivetti – con l’offerta di servizi rivolti non solo ai lavoratori, bensì a una collettività più ampia. In entrambi i casi, a ogni modo, si tende a tessere un rapporto virtuoso tra industria e territorio, potenziando la prima senza depauperare il secondo, sfuggendo ai dettami di una pianificazione prestabilita, optando al contrario per addizioni successive di elementi e spazi funzionali, in un masterplan quanto più flessibile.
Flessibilità, servizi, immagine
Alla scala dell’edificio, proprio la flessibilità diventa un elemento cruciale. Si privilegia una distribuzione interna aperta a diverse configurazioni, per seguire le mutevoli esigenze di committenza e lavoratori, in una riconfigurazione agile dei singoli componenti che tenta di contrastare lo straniamento causato dalla continua giustapposizione di moduli in ossequio alla ripetibilità delle soluzioni.
Fondamentali sono anche gli spazi del lavoro sospeso: se all’inizio questi si limitano alla ristorazione e alle sale per il ritrovo, affiancate talvolta da spazi aperti ai famigliari dei dipendenti, la progressiva complessificazione del concetto di tempo libero costringe progettisti e aziende a diversificare le funzioni, con maggiore incidenza sull’economia industriale ma anche offrendo l’opportunità di sperimentare nuove soluzioni tecniche e distributive.
Altro investimento d’impronta democratica è la contenuta differenziazione nel prestigio dei materiali e delle finiture d’arredo tra le diverse sezioni del quartier generale. Già negli anni sessanta alcune società del gruppo Iri, per esempio, si muovono in tale direzione, approvando progetti in cui gli uffici dei dipendenti e quelli dei direttori appaiono meno distinguibili che in passato.
Su questi temi aziende come la Rai, attente al perseguimento di un’immagine coordinata e condivisa – di cui l’industria italiana degli anni del boom è tra i capostipiti – introducono poi un altro protagonista nell’allestimento interno: l’opera d’arte, talvolta utilizzata non solo negli spazi di rappresentanza ma anche in quelli della produzione, col duplice scopo di rendere più piacevole la permanenza nel luogo di lavoro, e di far sentire i dipendenti parte integrante dell’azienda come élite sociale.
Tra strategie vecchie e nuove, la parola chiave sembra essere, infatti, appartenenza: dei dipendenti all’impresa e dell’impresa alla città. Il rapporto tra uomo e fabbrica non appare risolto solo nella realizzazione di edifici accattivanti, ma nella visione dell’architettura come emblema di politiche davvero a sostegno dei lavoratori, primo tassello nella definizione di una coerente identità aziendale.
* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project
Marianna Gaetani (1988) è dottoranda in “Architettura. Storia e Progetto” presso il Politecnico di Torino, dove ha conseguito la laurea. Le sue principali ricerche riguardano la storia dell’architettura e della città nell’Italia del Novecento, con particolare attenzione verso i processi, e la relazione tra progetto – architettonico e urbano – e politica. Dal 2018 fa parte del comitato editoriale di “in_bo”, rivista scientifica del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna