Nuovi spazi del lavoro: bisogna cambiare paradigma
Secondo Enrico Frigerio il futuro porterà situazioni ibride che metteranno insieme i vantaggi del lavoro in presenza (creatività, confronto e interazione sociale) con quelli del lavoro da remoto (riduzione spostamenti e costi passivi e differente gestione del tempo)
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Published 14 maggio 2021 – © riproduzione riservata
Sulla scia di una riflessione intorno ai cambiamenti negli spazi del lavoro nell’età industriale e post-industriale, Il Giornale dell’Architettura prosegue la propria inchiesta interpellando, attraverso quattro domande, progettisti noti per le loro realizzazioni nell’ambito. Iniziamo con Enrico Frigerio (Frigerio Design Group).
L’architettura d’impresa dell’ultimo mezzo secolo ha visto un cambiamento evidente nelle sue strutture e nei suoi principi ispirativi. Tra fenomeni effimeri, di stile e tendenza, il mutamento pare lo abbia causato il mercato, che ha portato alla riduzione degli spazi di stoccaggio e all’ampliamento degli spazi di commercializzazione, ricerca e progetto. Nella sua attività di progettista, come si rapporta a questo mutamento epocale? Qual è il suo modello ispiratore?
Il cambiamento che stiamo affrontando, più che dettato dal mercato che ne rappresenta una diretta conseguenza, è stato spinto dalla rivoluzione digitale che ha modificato i vari processi, da quelli relazionali, a quelli produttivi; non c’è settore che ne sia rimasto escluso. Se a questo aggiungiamo gli aspetti finanziari e le problematiche legate all’ambiente, siamo di fronte ad un mutamento epocale. Tutto questo incide e condiziona il nostro lavoro di architetti, che è in costante trasformazione.
Da anni abbiamo sviluppato una nostra filosofia, la “slow architecture”, per un’architettura progressiva che vive nel tempo e trae dal contesto le risorse per la sua definizione; contesto inteso nel senso più ampio del termine, dove l’ambiente, le condizioni climatiche, la storia del luogo e delle persone, forniscono una serie di parametri per realizzare opere in empatia con l’ambiente nel quale si inseriscono, a ridotta impronta ecologica.
Per sviluppare i nostri progetti sin dalle fasi iniziali, si lavora con una progettazione integrata, secondo la filosofia dello User centered design (UCD). Un modo per progettare e costruire tenendo conto del punto di vista e delle esigenze dell’utente; un processo che si basa sull’interazione tra diversi strumenti di analisi e osservazione, di progettazione e verifica, introducendo l’innovazione. In una progettazione sempre più complessa, i vari aspetti e i vari componenti devono essere pensati e integrati tra loro al fine di ottimizzare le condizioni esistenti e ottenere le migliori performance, secondo un sistema uomo-ambiente ed edificio-impianto.
Contesto, committente e cantiere: così si potrebbe definire la triangolazione su cui si basa la cultura del nostro fare. Perché ogni progetto ha una storia e una quantità di protagonisti che ne fanno parte; è un percorso complesso, fatto di competenze diverse da orchestrare con esperienza.
Lo spazio del lavoro è anche lo spazio di una comunità – era la grande intuizione di Adriano Olivetti -, che si rapporta alla più ampia società e alla città, attraverso relazioni anch’esse in continuo cambiamento. Nella condanna di ogni ghettizzazione, la sola funzione per la quale la compartimentazione sembra ancora accettata resta proprio quella dei distretti industriali. Questa logica di pianificazione è ancora attuale? Nell’accelerazione causata della pandemia, l’incremento della virtualità influenzerà questi aspetti?
L’ambiente di lavoro, oggi più di ieri, rappresenta il luogo della comunità e dell’identità, mentre la città è sempre più un mix di attività che migliorano la qualità della vita dei suoi abitanti. Tutto questo deve però essere contestualizzato e interpretato a seconda dei casi, oltre alla componente tempo che è diventa condizionante.
Sicuramente a livello di pianificazione urbana, non esiste una ricetta per tutti i gusti, ma piuttosto caratteristiche delle attività o dei luoghi che possono condizionare le scelte e le strategie. Penso che l’aspetto più importante sia rappresentato dalla capacità di adeguare le situazioni, con un grado massimo di flessibilità, per rispondere ad esigenze che cambiano e si evolvono repentinamente.
La condizione pandemica, che abbiamo vissuto ultimamente, ha da un lato messo a nudo una serie di limiti della nostra società, inducendo a profonde riflessioni, contemporaneamente ha accelerato il processo di digitalizzazione dei vari ambiti, obbligando tutti a confrontarsi e ad evolversi, dalla generazione dei boomer a quella Z.
Tutto questo però, passata la pressione che stiamo ancora vivendo, penso porterà a situazioni ibride, in quanto si manterranno quelle pratiche che hanno tratto evidenti vantaggi dalla virtualità, mentre si ritornerà ad abitudini pregresse magari riviste e attualizzate.
Un esempio su tutti, il lavoro da remoto limita la creatività e rallenta l’apprendimento delle nuove generazioni, perché nega il confronto, l’interazione sociale e la collaborazione.
Gli strumenti di cui disponiamo oggi sono potentissimi, nel nostro lavoro ci permettono di poter lavorare con esperti e consulenti che si trovano dall’altra parte del mondo, di sviluppare progetti complessi con un unico modello (BIM) su cui tutti operano ed avere un migliore controllo del processo, di controllare un cantiere a distanza in tempo reale. Ma la cosa più importante è una differente gestione del tempo, perché si eliminano certi spostamenti, si riducono dei costi passivi, si inquina di meno (perché ci si muove meno) e il tempo risparmiato può essere dedicato ad attività a più alto valore aggiunto.
L’aspetto fondamentale sarà il cambio di paradigma, passare dalla quantità alla qualità, ma sviluppando sempre più l’aspetto relazionale.
Il progetto degli spazi del lavoro pare improntato sempre più all’informalità, all’orizzontalità, conducendo, nei casi migliori, a una qualità ugualmente alta tra gli spazi dei dirigenti e quelli degli impiegati, tanto negli uffici quanto nei servizi garantiti. Secondo la sua esperienza, si tratta di vincolare all’affezione oppure di favorire la partecipazione? Le è mai capitato che questa partecipazione dell’intera comunità di produzione partisse già in fase di progetto?
In generale rimaniamo sempre affascinati dagli ambienti di lavoro informali in quanto inusuali, ma non bisogna fermarsi al primo impatto, uno spazio deve essere vissuto nel tempo per poterne apprezzare la reale validità. Personalmente ritengo poi che uno spazio di lavoro debba essere progettato in base alle esigenze e alle problematiche dell’azienda per la quale viene pensato; differenti modalità di lavoro richiedono spazi differenti. Modalità di lavoro da remoto possono calzare perfettamente per certe attività ed essere invece limitanti per altre.
Una stretta correlazione tra strutture artificiali e naturali, secondo un approccio biofilico, alla ricerca dell’eccellenza e della funzionalità, per il benessere fisico e mentale di chi lavorerà negli spazi, per migliorare la relazione, la creatività e il senso di appartenenza ad una collettività. Realizzare ambienti dove stare bene e sentirsi bene.
Nel progetto per il nuovo headquarter di Crédit Agricole Italia sin dalle fasi iniziali c’è stato un coinvolgimento della comunità dell’istituto non solo per definire meglio le esigenze e gli obiettivi da raggiungere, ma anche per “accompagnare” l’evoluzione del nuovo modo di lavorare previsto. Il coinvolgimento è arrivato anche al punto tale di far partecipare alcuni dipendenti alla realizzazione di un murale che è stato realizzato nel ristorante aziendale!
Recentemente stiamo realizzando un polo di innovazione tecnologico per la Ferrero ad Alba, dove il progetto nasce dall’esigenza di riunire sotto lo stesso tetto le varie attività di engineering dell’azienda, in particolare quelle destinate alla progettazione dei nuovi impianti di produzione e l’area officina dove vengono costruiti. Le parole d’ordine del progetto sono state sicurezza e comfort sensoriale. Realizzare degli spazi di lavoro sicuri, funzionali e confortevoli al tempo stesso, per creare le condizioni giuste per le differenti attività previste. L’officina è stata pensata con una pianta regolare, “pulita”, con pannelli di tamponamento perimetrali di colore bianco che presentano la faccia interna microforata e fonoassorbente per migliorare la qualità acustica e contenere l’eventuale inquinamento acustico verso l’esterno. Gli spazi ufficio sono invece un vero e proprio “campo”, portato in quota: pochi elementi fissi, geometrie coordinate e massima flessibilità per allestire i vari spazi. Un “landscape” attraversato da un percorso lungo il quale s’incontrano “giardini volanti” e “pozzi di luce”, e dove le persone trovano nell’arco della giornata ambienti per lavorare, per concentrarsi, per rilassarsi o per partecipare in totale sicurezza; privacy quando serve, interazione e condivisione quando il momento lo richiede. Un susseguirsi di luci, colori, profumi, trasparenze e volumi da vivere soggettivamente che rendono ogni luogo un’esperienza unica.
L’ultima curiosità riguarda gli studi d’architettura come spazio d’impresa. Democrazia, flessibilità, integrazione, partecipazione sono infatti presupposti che si richiedono ai progetti. Valgono, però, anche per i progettisti? In altri termini, gli studi d’architettura – nella doppia accezione di gruppo e di spazio – sono luoghi di comunità e di equo compenso? I progetti di nuovi spazi per il lavoro sorgono in luoghi conformi ai principi che dovrebbero trasmettere e trasporre in architettura?
Questa domanda apre un mondo! Nel mio lavoro di progettista ritengo che la partecipazione e la contaminazione siano due azioni strategiche all’interno del team, allo scopo di favorire la creatività. In modo particolare oggi, dove i progetti sono sempre più complessi e richiedono il contributo di molte professionalità da un lato, mentre dall’altro abbiamo a disposizione un eccesso d’informazioni che devono essere “pesate” e selezionate. Per favorire questi aspetti è fondamentale lavorare in spazi aperti che favoriscano l’incontro e lo scambio, perché le informazioni devono circolare; nel mio studio non ci sono porte, e gli spazi dove lavorano gli architetti sono tutti collegati da un lungo muro su cui vengono appesi i vari progetti. Io stesso lavoro in mezzo al mio team. Può sembrare un paradosso ma oggi con tutti gli strumenti di cui disponiamo che amplificano la comunicazione e la connessione, i progetti rimangono “chiusi” nei computer, ma questo non giova alla loro crescita.
In studio è prassi che i vari progetti, i loro disegni, i dettagli vengano stampati e appesi come panni al sole, visibili da tutto lo staff, per decantare, per essere osservati e criticati, anche da chi in quel momento sta lavorando su un progetto diverso. Così facendo le varie persone sono costantemente informate di quello che succede, ma la cosa più importante e che tutti possono esprimere le loro osservazioni. Osservazioni di vario tipo e natura che stimolano e inducono alla riflessione, poco importa se sono critiche positive o negative, tutto questo è stimolante.
Sicuramente, per quanto mi riguarda lavoriamo in uno spazio aperto che favorisce l’affiatamento e la crescita dei vari architetti. Dove il tasto duole e l’equo compenso. Questo aspetto è strettamente legato a quello che io chiamo riconoscimento sociale della nostra professione, riconoscimento che la nostra società sino ad oggi non ammette. Di fatto è un circolo vizioso: se il mercato della professione non riconosce un determinato valore degli onorari professionali, a cascata anche i compensi all’interno delle varie strutture non potranno essere congrui. È inammissibile che gli incarichi professionali vengano assegnati con ribassi del 60-70% rispetto a quello che sarebbe un equo compenso, è evidente che poi questa situazione si ribalta all’interno dello studio.
Sono anche convinto che i buoni esempi possano essere virtuosi per un cambiamento positivo!
Immagine di copertina: Green Life, headquarter Crédit-Agricole Italia a Parma (2018, © Mario Carrieri)
Chi è Enrico Frigerio
Nato a Torino, si laurea in architettura a Genova ed entra nel Workshop di Renzo Piano al cui fianco impara il mestiere. Nel 1991 fonda Frigerio Design Group, che fa della qualità e del rapporto con l’ambiente il proprio obiettivo primario. Tra i suoi progetti più significativi: la tribuna ecologica dell’Autodromo di Imola (1991-1992), la sede Sambonet a Orfengo (2000-2004), le centrali elettriche del gruppo svizzero AXPO (2002-2008), il Centro sportivo Ferdeghini per lo Spezia Calcio (2012-2013), la nuova Stazione Elettrica di TERNA a Capri (2012-2017), l’Headquarter Crèdit -Agricole Green Life (2008-2018) a Parma. Nel 2020 sono stati portati a termine l’Headquarter di Arcaplanet a Carasco ed il complesso residenziale di Piazza Aviatori d’Italia a Saronno e la sede uffici e produzione di ZamaSport a Novara . Sono invece attualmente in cantiere il Ferrero Technical Center ad Alba e il refitting degli uffici della Rosenthal a Selb in Germania.
* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project