Qual è la forma della sostenibilità?
Gli interventi di efficientamento energetico in rapporto alle valenze della preesistenza: tre considerazioni e altrettanti casi studio
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Quello dell’efficienza energetica è un aspetto che, almeno a partire dagli anni ’90 (la prima certificazione LEED è del 1994), ha assunto un’importanza sempre maggiore nella progettazione architettonica, portando, per certi versi, a un vero e proprio mutamento di paradigma nell’impostazione dei nuovi edifici. Nell’ambito edilizio, la riflessione indotta dall’introduzione dei nuovi criteri di sostenibilità si è progressivamente estesa dagli aspetti più marcatamente tecnici ad altri elementi della più ampia progettazione architettonica, intesa come campo complesso: in particolare, in tempi più recenti, ci si è cominciati a interrogare sugli esiti formali di progetti massicciamente orientati da criteri di efficienza energetica. Nella sostanza, ci si chiede in che modo l’introduzione di un tema così pervasivo come quello dell’efficienza energetica condizioni gli esiti compositivi dell’architettura; la questione diviene tanto più rilevante quando si consideri che gran parte degli accorgimenti messi in campo hanno a che fare con l’involucro dell’edificio – cioè, in sostanza, con la facciata, elemento che svolge ancora in ruolo essenziale nella caratterizzazione e “presentazione” dell’edificio stesso.
Alcuni primi esiti di queste riflessioni sono tracciabili in una bibliografia – prevalentemente in lingua inglese – che comincia ad essere piuttosto consistente, ma che tuttavia si concentra sull’analisi di edifici di nuova costruzione. Il motivo di questa scelta è intuibile: in un edificio progettato ex novo secondo criteri di sostenibilità, le relazioni tra le istanze legate all’efficienza energetica e gli altri fattori che concorrono a determinarne la forma sono più chiare ed esplicite, e dunque più facilmente identificabili e analizzabili.
Tuttavia, è fondamentale ricordare che, nei Paesi occidentali e in Italia in particolare, lo stock costruito esistente si rivela ormai addirittura sovrabbondante rispetto alle richieste di una società che si trova, nella migliore delle ipotesi, in stallo demografico e in ridotta crescita economica (anche non considerando le peggiorative conseguenze dell’attuale crisi pandemica). La maggior parte degli interventi tende così a concentrarsi non già sulla realizzazione di nuovi edifici, ma sulla riqualificazione dell’esistente: escludendo il patrimonio vincolato, ci si trova così a lavorare sulla gran massa dei prodotti del boom edilizio del dopoguerra (il 60% del patrimonio edilizio italiano è stato realizzato prima del 1980).
Questa differenza comporta una serie di conseguenze non secondarie. Si assiste a un moltiplicarsi d’interventi spesso parziali, talvolta scaglionati nel tempo, fortemente condizionati dalle disponibilità economiche dei residenti, e che soprattutto devono fare i conti con le preesistenti caratteristiche – strutturali, tecnologiche e formali – degli edifici. L’intervento progettuale è ridotto a un tema di “abbigliamento” di un edificio in cui masse, bucature, aggetti e volumi sono già dati, con inevitabili conflitti tra partiture originarie e nuove organizzazioni di facciata. In queste condizioni, andare alla ricerca di una “forma dell’architettura sostenibile” diviene ancora più complesso.
Se, ad esempio, si prende in esame un intervento comune, quello del cappotto termico applicato alle facciate, l’esito formale che ne discende è nella pratica corrente risolto con la realizzazione di una semplice superficie intonacata, tendenzialmente indifferente alle eventuali differenziazioni materiche della facciata preesistente. Se questo, in generale, può addirittura rappresentare un miglioramento rispetto a disegni di facciata nella migliore delle ipotesi banali, quando non più spesso confusi, come molti di quelli tipici dell’edilizia “di massa” degli anni ’60 e ’70, nondimeno ci si può interrogare su alcune questioni.
La prima domanda è come comportarsi quando il manufatto da riqualificare sia il prodotto di progettisti raffinati. Si tratta di un caso meno raro di quanto possa sembrare, in particolare grazie alla partecipazione di significativi esponenti della cultura architettonica italiana alla grande stagione dell’edilizia economica popolare del dopoguerra, dal cosiddetto “Piano Fanfani” (1949) in poi. Ad esempio, la sovrapposizione, ancora nel 2016, di un cappotto intonacato, con tanto di fasce marcapiano, sull’edificio Ina-Casa di Orbassano (Torino), progettato da Giorgio Raineri (1954-55), ha annullato la texture superficiale originaria in mattoni facciavista, degradandone irreparabilmente l’immagine e la consistenza stessa.
La seconda questione pertiene la considerazione del valore simbolico attribuito ai materiali. Se – indipendentemente dalla qualità del progetto – nella nostra “cultura della percezione” una finitura in mattone facciavista, tipica ad esempio di molta edilizia residenziale piemontese (e non solo) del dopoguerra, è associata quasi “istintivamente” a un’idea di solidità e durevolezza, altrettanto non si può dire di una superficie intonacata. Il caso si pone, ancora, nei progetti di riqualificazione di alcuni edifici di edilizia popolare: la “nuova” facciata, per quanto più efficiente, rischia di essere percepita dagli abitanti come un impoverimento dell’edificio (cioè della propria casa) e dell’ambiente costruito in generale.
Ne consegue – terza considerazione – la necessità di una riflessione sul tema dell’identità locale dell’architettura, a fronte del dualismo (certo non esclusivamente proprio della riqualificazione energetica) tra tradizione e innovazione, di fronte all’impatto di nuove tecnologie sovralocali. Escludendo il ricorso mimetico a stilemi formali meramente imitativi di tecnologie non più in uso, si tratta di andare alla ricerca di un punto di equilibrio complesso tra le istanze d’innovazione e adeguamento e i vincoli (formali, economici, simbolici) dell’esistente. Un’impresa forse meno “eroica” della progettazione ex novo, ma sicuramente non meno difficile.
Filandone di Martinengo (Bergamo)
Nel caso dell’opificio tessile di fine XIX secolo caratterizzato dalla facciata neogotica scandita da alte monofore, il recupero (2012-13, arch. Domenico Egizi) è stato accompagnato dalla posa di un cappotto termico sul lato interno della muratura. L’adeguamento delle prestazioni termoigrometriche dei locali è stato ottenuto tramite un “guscio” autoportante. All’interno, organizzato da ambienti ampi e dalla forma semplice, Vanoncini Spa ha realizzato una struttura leggera in profilati d’acciaio, staticamente e termicamente autonoma rispetto alla facciata esistente. I montati portano i diversi strati che, nell’insieme, costituiscono il “guscio” interno. Nel sistema a cappotto interno la coibentazione è installata sulla superficie interna della muratura: lascia sostanzialmente immutata la facciata del fabbricato; per questo motivo è il sistema utilizzato principalmente negli edifici con valenza storica o, in generale, nei casi in cui si vogliono preservare le facciate esistenti.
Web: vanoncini.it
Edificio delle ex Poste a Bolzano
Nel 2006, per la rifunzionalizzazione a uffici per la Provincia dell’edificio delle ex Poste presso la stazione ferroviaria, costruito nel 1954, l’architetto Michael Tribus ha progettato la demolizione della sopraelevazione degli anni ’70 e delle partizioni interne. L’edificio è stato ampliato di due piani, con tetto verde, ed è stato progettato un nuovo involucro. La coibentazione a cappotto esterno è realizzata in lastre di polistirene espanso con spessore 350 mm. In corrispondenza delle finestre, le lastre d’isolante sono state pre-sagomate, tramite taglio a filo caldo, in diverse angolazioni, sfruttando lo spessore dello strato di coibentazione. La posizione e dimensione delle strombature è funzionale alla gestione dell’illuminazione naturale dei vani: nei piani inferiori gli sguinci sono rivolti verso l’alto, per intercettare una maggior quantità di luce solare, mentre ai piani superiori sono indirizzati verso il basso, per ottenere passivamente una maggiore ombreggiatura. È il primo edificio pubblico, in Italia, ad aver ottenuto la certificazione energetica Casa Passiva e Casa Clima Oro.
Web: michaeltribus.com
Liceo di Neubiberg (Monaco di Baviera)
Costruito nel 1976, il Gymnasium non soddisfaceva più alle prestazioni richieste dalla revisione della normativa tedesca sul risparmio energetico, entrata in vigore nel 2014 (Energieeinsparverordnung EnEV 2014). Nel 2013, su progetto di Venus Architekten, l’edificio è stato rinnovato negli interni: sono stati allargati i corridoi, con maggiore illuminazione da nuovi lucernari, l’aula magna è diventata uno spazio polifunzionale, con la possibilità di ospitare concerti, conferenze e spettacoli teatrali, l’ala sud è stata ristrutturata per accogliere classi aperte, funzionali a nuovi modelli di apprendimento. La facciata esistente, in pannelli a vista in cemento-amianto, è stata sostituita da una facciata ventilata, con coibentazione a cappotto in lana minerale ad alta densità: l’importante spessore dell’isolamento (220 mm) conferisce al muro elevate prestazioni energetiche; l’elevata massa, funzionale alla densità del coibente, favorisce l’accumulo termico, minimizzando il fabbisogno energetico.
Web: venus-architekten.de – www.detail.de
Luca Caneparo, PhD, è professore associato di Tecnologia dell’architettura presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino.
Alessandro Di Renzo è borsista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino.
Davide Rolfo, architetto, PhD, è professore associato di Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino.