Paolo Zermani, Cappella nel Bosco (© Mauro Davoli)

Progettare il sacro: terra, luce e silenzio

Progettare il sacro: terra, luce e silenzio

Insieme a luogo e tempo, sono i tre elementi imprescindibili a cui può ancorarsi il progetto della sacralirà dell’architettura

 

Published 10 giugno 2021 – © riproduzione riservata

Il vero tema del progettare il sacro e di trasmetterne il senso attraverso l’insegnamento sta nell’avere consapevolezza del nostro appartenere alla condizione dell’Occidente cristiano: un paesaggio costruito, dopo l’eredità greca, da duemila anni di sovrapposizioni ancora leggibili e incise sulla terra.

La nozione di spiritualità, sfuggendo ai confini della liturgia, ha oltrepassato i limiti del perimetro murario degli edifici per rendersi itinerante e affrancarsi dalla necessità di un luogo deputato. Caduti i termini di riferimento propri alla canonica condizione del culto, e stabilite dal Concilio Vaticano II le linee di una più aperta e diffusa evangelizzazione, è sembrato possibile, costruendo gli edifici sacri, abbandonare la logica di una pratica già scritta nella storia delle architetture e delle forme liturgiche, nelle regole degli ordini.

Su questo orizzonte il principio di fondo del mio lavoro rimane, come è sempre stato per gli architetti della cristianità occidentale, quello di rivelare, nell’edificio, la croce. La sua manifestazione, gradualmente acquisita come elemento tipologico, è la cruna entro cui il sacro continua ad avverarsi. La fusione fra la croce e la pianta dell’edificio assume valore attraverso la figura del Cristo che, in sembianza umana, introduce eccellenza e fragilità alla figura tipologica, svelandone il necessario, reiterato sacrificio.

Insieme al corpo di Cristo, il medium di questo riconoscimento possibile è, dunque, il corpo dell’uomo. Esso definisce la sacralità delle opere che innalziamo come del suolo che calpestiamo, fino a tradursi in tumulo, la forma più alta di architettura. In effetti la cultura occidentale pone, di fatto, nel corpo sepolto, l’origine della civiltà.

Il valore fondativo della morte costituisce il patto che sancisce il valore del tempo, della memoria e della storia. È nella manifestazione del tempo, depositata dalla memoria, che si acquisisce la consapevolezza della provvisorietà della vita e dell’architettura, ma anche la sfida rivolta a un possibile conseguimento di eternità. Sulla morte si costruisce, dunque, il senso del tempo e, conseguentemente, dell’opera, quindi paradossalmente la continuità della vita. Attraverso il corpo morto l’architettura risorge. Per la cultura artistica occidentale e cristiana, infatti, il corpo, oltre ad essere tempo, è tempio.

Fino ad Alessandro Magno, il mondo greco e quello orientale non si erano conosciuti. Il primo aveva costruito ogni cosa a partire dal “tipo”, un sigillo classificatorio con cui catalogare il mondo visibile; il secondo aveva costruito ogni cosa sul “simbolo”. Possiamo dire che “tipo” e “simbolo” s’incontrano, in via definitiva, alla base della croce di Cristo: la croce (fino ad allora un patibolo) sintetizza, anche per l’architettura, una rivoluzione culturale e spirituale.

Mi limito qui a citare, oltre a luogo e tempo, tre elementi imprescindibili cui oggi può ancorarsi il progetto della sacralità nell’architettura.

 

Terra

È il primo ancoraggio.

Nel capitolo iniziale, “Il volto di una terra”, del suo San Francesco, del 1927, Romano Guardini individua il contesto in cui si costruisce, fin dalla giovinezza, la figura del Santo, dedicandolo interamente alla descrizione dell’ambiente architettonico e derivandone il senso della presenza francescana. “Si percepisce dapprima l’architettura con l’occhio, ma quello è solo l’inizio. Essa è colta realmente col corpo, con l’arco della fronte, con l’ampiezza del petto, con l’essere che la sente in modo vivo, avanzando attraverso lo spazio”. “In questa tensione viva”, scrive ancora Guardini, “che continuamente si ridesta, che mai scompare, ma viene sempre superata a nuovo in un atteggiamento particolare dell’intera persona, è cresciuto Francesco”. Il Santo nasce alla propria complessità spirituale dalla forma esterna e interna del paesaggio, dalla terra. Da qui l’indicazione del Crocifisso di ricostruire tre chiese materiali prima di compiere la missione dello spirito e l’urgenza dell’esperienza ricostruttiva come pratica quasi propedeutica.

Le città italiane e il paesaggio delle loro chiese assumono oggi l’evocativa struttura di un mosaico la cui trama presenta un’eguale quantità di vuoti e di sopravvissuti angosciati lacerti. Già quasi un secolo fa, Rudolf Borchardt parlava di “una geniale totalità in macerie”, Guido Ceronetti di “frantumi di bellezza”. Oltre un contenuto di riparazione “L’atmosfera” è oggi forse nuovamente “tanto densa e satura di forme da dover giungere al punto di precipitazione per ricomporsi in forme nuove”.

 

Luce

È il secondo ancoraggio.

Proprio attraverso un’affermazione di sacrificio, di morte e resurrezione, si colloca nella vicenda occidentale, con la vita terrena di Cristo e il suo annuncio divino, una istanza nuova del vedere. Sarà Dante a concettualizzarla definitivamente, con temeraria chiarezza, nelle sue visioni della luce, in cui il vivo raggio lo trafigge, rendendolo consapevole dell’impossibilità di allontanarsene.

In modo opposto alla luce violenta del mondo sensibile, la luce in sè offre agli occhi di chi la guarda la forza di sopportarne l’intensità, mentre acceca chi non ha la volontà di guardarla. E, non a caso è invece in Jorge Luis Borges, cieco, che il concetto di perdita della vista prelude a un privilegio rifondativo.

La luce cade”, scrive Gilles Deleuze in Cinema, “che cos’è il movimento dell’intensità. Il movimento dell’intensità è la caduta della luce”. Nel buio di una prosaica sala di proiezione egli ricostruisce l’alfabeto che avvicina l’arte all’infinito. Anche attraverso il mezzo moderno, quello cinematografico, scandisce la verità raggiungibile con lo spostamento “intensivo” del punto di vista. “La luce cade sopra di noi, ed è questa l’intensità: essa non cessa di cadere. E ciascuno di noi chiederà pietà.”

 

Silenzio

È il terzo ancoraggio.

Che cosa significa oggi chiedere silenzio? La cosa non corrisponde a un’aspettativa di mutismo, né a una generica rivendicazione minimalista, ma all’esigenza di una chiesa scabra.

Fingendo un trattatello di ricostruzione erudita del pensiero di Sant’Agostino (Traitè de la musique selon l’ésprit de S. Augustin), nel 1940 lo storico francese Henry-Irenée Marrou fissa icasticamente il valore del silenzio parlando di una “musica silenziosa”, che ancora molti attendono.

Nuove cose urgenti devono essere scavate, scritte e ordinate dall’arte, per ammetterle a una zona sobriamente illuminata, che attribuisca misura e senso alla realtà e ne insegua la verità superiore. Rispetto al frastuono delle forme vuote da cui l’architettura sembra investita. Un principio di sospensione, di distanziamento, che costituisce la fondamentale condizione critica del progetto e che qualifica, per converso, il suo stare con bellezza nella realtà presente. Come l’ombra sostiene la luce, il silenzio sostiene le sole parole necessarie.

In un contesto ove ogni metro di terra è sacro, Gaston Bachelard ci ricorda la similitudine della fiamma: in essa, come nell’architettura, deve esistere un fuoco doppio, l’uno più forte che divora l’altro. “Sulla fiamma che sale vi sono due fiamme: l’una è bianca, e riluce e risplende, con la propria radice azzurra in cima; l’altra è rossa, ed è unita al legno e al lucignolo che essa brucia. La bianca sale direttamente in alto, mentre sotto rimane ferma la rossa, senza abbandonare la materia, fornendo all’altra ciò che di essa fiammeggia e riluce”. In questa dialettica dell’attivo e del passivo, dell’attivo e dell’agente, dei participi passati e dei participi presenti sta il senso della conquista del sacro. La fiamma bianca deve giungere a sterminare le materialità che la nutrono e la alimentano.

Il progetto è sempre un nuovo inizio: già evocato da Martin Heidegger, propone ogni giorno a noi, abitatori coscienti dell’Occidente, la necessità di una condizione del pensiero, anche di quello architettonico, che ci liberi dal “pensiero calcolante” e ci conduca a un “pensiero rammemorante”.

Questa è la prospettiva sacra dell’architettura e della sua trasmissione, offerta al nostro presente smarrito dal paesaggio italiano quale paradigma del paesaggio occidentale. Una prospettiva non di rimpianto, ma di re-impianto.

 

Autore

  • Paolo Zermani

    Nato nel 1958, dal 1990 è professore ordinario di Composizione architettonica alla Facoltà di Architettura di Firenze. Dal 2015 è visiting professor di Progettazione presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio. È accademico di San Luca e fondatore dei convegni “Identità dell'architettura italiana”. Nel 2018 l'Accademia dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per l’architettura. Le sue opere sono pubblicate sulle maggiori riviste internazionali. Tra i suoi scritti: Architettura: luogo, tempo, terra. luce, silenzio (2015). Tra i progetti recenti, l’adeguamento architettonico e liturgico della basilica di Sant'Andrea a Mantova, il restauro e ricostruzione del Castello di Novara, la Scuola per l’Europa di Parma, la nuova uscita del Museo delle Cappelle medicee a Firenze.

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