Preoccupiamoci di qualità più che di proprietà
Secondo Marco Bellinazzo l’Italia ha stadi vecchi e inadeguati, con il record di progetti ma pochissimi cantieri a causa delle difficili sinergie tra pubblico e privato
Published 10 giugno 2021 – © riproduzione riservata
Giornalista de “Il Sole 24 Ore”, Marco Bellinazzo è uno dei massimi esperti italiani di economia sportiva. Nel suo blog gli stadi e gli impatti economici che generano sono spesso al centro dell’attenzione. Temi su cui ha dialogato con “Il Giornale dell’architettura.com.
In tema di stadi calcistici, l’Italia ha il record mondiale di modellini e rendering. Non c’è città che non abbia avuto una presentazione ufficiale in pompa magna del “nuovo stadio”. Nonostante questo, le strutture costruite negli ultimi 30 anni sono pochissime: contiamo una scarsa capacità programmatica e perdiamo molte occasioni per un rinnovamento delle infrastrutture sportive. In questo senso, i prossimi grandi eventi non aiuteranno, perché sempre di più adotteranno un modello diverso, basato sul riuso.
Quadro desolante: stadi vecchi e risorse buttate
Gli stadi delle 20 squadre di serie A hanno un’età media di 60 anni e generano un ricavo di circa 350 milioni annui complessivi, in termini di biglietti venduti e di servizi collaterali offerti nei giorni delle partite. La media europea è di 80 milioni per club, quindi le società calcistiche italiane perdono circa 300 milioni ogni anno a causa dell’inadeguatezza dei nostri stadi.
Cifra che tocca anche le medie e piccole società: i benchmark dimostrano che chi gioca in uno stadio da 20.000 posti può raddoppiare i propri introiti con una struttura più ospitale ed efficiente. In questo senso gli esempi virtuosi italiani sono pochissimi. Giustamente si cita spesso lo Juventus Stadium, uno dei pochi privati, inaugurato nel 2011. Giocando nel vecchio stadio torinese la società fatturava tra i 10 e i 15 milioni ogni anno. Oggi, Covid a parte ovviamente, tra i 50 e i 60 milioni.
Ma pochi ricordano un caso paradigmatico: nel 1995 la neopromossa Reggiana (di Reggio Emilia) ha costruito il primo, e per lungo tempo unico, stadio privato italiano, Il Giglio. Un’operazione innovativa che si è conclusa con il fallimento, dovuto anche alla retrocessione della squadra. Perché gli investimenti immobiliari sugli stadi sono spesso condizionati dalle fortune sportive e da una distribuzione delle risorse tra società insostenibile. Il Giglio poi è stato acquistato all’asta dalla Mapei e oggi è il Mapei Stadium.
Privato o pubblico?
Parlo soprattutto dell’iniziativa del privato, perché è chiaro che sono proprio le società calcistiche (almeno quelle che fanno attività industriale e non sono sostenute da forme di mecenatismo) a poter innescare nuovi progetti. Le amministrazioni pubbliche, in gran parte proprietarie degli stadi, non sono in grado.
La situazione dell’Artemio Franchi di Firenze è emblematica. La Fiorentina ricava dallo stadio una cifra minima, meno di 10 milioni, nonostante sorga in un luogo straordinariamente attrattivo. Il programma della proprietà (straniera) era un nuovo stadio in altra zona o un rinnovamento significativo, per poter incrementare l’introito e investire risorse nella squadra. Le scelte politiche sono andate in una direzione diversa, con i fondi dal Recovery Fund (95 milioni sul miliardo circa destinato all’edilizia sportiva) che l’amministrazione comunale userà per una ristrutturazione del Franchi certamente di qualità che però, temo, non porterà all’efficienza capace appunto d’innescare un ciclo economico. In sostanza, rischiamo uno spreco di risorse.
Come è successo allo stadio di Napoli in occasione delle Universiadi 2019. Sono stati posati i seggiolini, è stata rifatta la pista di atletica: 25 milioni che non hanno nessun ritorno perché non hanno reso quello stadio un’infrastruttura capace di attirare il pubblico, ospitandolo in condizioni migliori. Questi esempi dimostrano che i nostri comuni non possono incentivare questi progetti per una questione finanziaria e per difficoltà di programmazione. Ma anche perché la politica genera spesso corto-circuiti. La nuova legge sugli stadi incentiva un ruolo più attivo degli enti locali, che oggi possono investire su opere compensative, supportando l’investimento del privato. Ma la realtà è ben diversa. Lo abbiamo visto nel caso dello stadio della Roma, con una retorica che si oppone a forme di sinergia pubblico-privato, generando scontri nei quali i progetti affondano. Questo è probabilmente l’elemento che condiziona maggiormente il rinnovamento dello stock degli stadi italiani, insieme al fatto che molte strutture esistenti, anche di grande qualità architettonica, difficilmente possono “resistere” a interventi importanti che possano renderli luoghi di qualità per il pubblico.
Stadi di proprietà? Un falso problema
Si parla spesso di stadio di proprietà ma credo sia un falso problema, superabile dalle lunghe concessioni che gli enti oggi possono dare. L’obiettivo dev’essere invece lo stadio di qualità, che significa una struttura integrata nel tessuto urbano. Non più dunque stadi isolati, cattedrali nel deserto circondate dai parcheggi, bensì strutture capaci di generare sinergie con il quartiere e con la città. In questo senso non c’è un’unica formula. Le funzioni giuste ad integrazione dell’arena sportiva sono varie (dal commercio alla ristorazione, dai musei alle strutture sanitarie) e dipendono dalle esigenze della zona in cui lo stadio s’inserisce. Perché solo in questo modo gli stadi possono vivere anche nei giorni no-match e per fasce orarie più lunghe. In Inghilterra vi si celebrano anche matrimoni e funerali. Forse sono esagerazioni, ma certamente dobbiamo pensare ad usi vari e diversi. Non è un caso che proprio in questi mesi in grandi città, anche turistiche, come Madrid e Barcellona, le società sportive principali stanno innovando profondamente i propri impianti. Questo dimostra che servono idee e visioni nuove per interpretare la stagione che si apre.
Testo raccolto da Michele Roda
Chi è Marco Bellinazzo
Nato a Napoli, nel rione Sanità, nel 1974, si è laureato in Giurisprudenza all’Università Federico II con una tesi in diritto commerciale, ed è diventato giornalista frequentando l’Ifg Carlo De Martino di Milano. Dal 2004 lavora a “Il Sole 24 Ore”. Ha scritto di giustizia, lavoro, fisco. Dal 2007 si occupa di economia sportiva e, in particolare, dei business che ruotano intorno al mondo del calcio. Ha iniziato a discuterne settimanalmente in A tempo di sport e poi in Tutti convocati su Radio24 e in altre trasmissioni radiofoniche e televisive. Ha scritto: Il Napoli di Maradona (Mondadori, 2012, insieme a Gigi Garanzini), Goal Economy (Baldini e Castoldi, 2015), I veri padroni del calcio (Feltrinelli, 2017), La fine del calcio italiano (Feltrinelli, 2018).
.