Portoghesi a Lamezia Terme, spazio sacro o tempio civico?

Portoghesi a Lamezia Terme, spazio sacro o tempio civico?

 

Per la concattedrale di Lamezia Terme un concorso d’idee sulla carta innovativo ma dai discutibili esiti, con le lacune vistose nel progetto vincitore firmato da Paolo Portoghesi

 

LAMEZIA TERME (CATANZARO). Nel 1969 Paolo Portoghesi progettava la Chiesa della Sacra Famiglia a Fratte (Salerno), tematizzando per la prima volta la già corposa riflessione sugli edifici di culto contenuta nei suoi celebri studi su Francesco Borromini. Si tratta di un capolavoro, uno spazio colmo di tensione fra cavità e setti incurvati su un centro che sta di là dalla materia, secondo la metodologia già sviluppata, ad esempio, nei due noti progetti per le case Baldi (1959-61) e Andreis (1964-69). Le masse della copertura del volume liturgico raccordano i setti concavi; brani di paesaggio, questi ultimi, che a loro volta raccolgono, descrivono, potenziano il disegno del luogo. Il luogo che – Portoghesi l’ha insegnato per decenni – non è solo la mera fisicità limitrofa: è, per così dire, la metafisica della natura contestuale. Il vicino e il lontano nello spazio e nel tempo del sito, esteso fino all’ultima voce della totalità della sua Storia.

Ecco un metodo incardinato nei presupposti umanistici dell’architettura italiana, che intende la storia come strumento e la tradizione come voce umana del fare architettura. Un tratto simile è di per sé vocato al disegno dello spazio sacro, in quanto tematizza la trascendenza della totalità che è la Storia-Memoria nell’immanente finitudine delle condizioni materiali del progetto. L’impegno generoso ed autenticamente progressista di Portoghesi prosegue nel tema del sacro attraverso le tappe fondamentali della Biennale veneziana del 1992, con il padiglione per le tre religioni “del libro”, e la Moschea di Roma, ventennale cantiere e segno di scandalo politico nel tessuto periferico dell’ombelico dell’occidente cristiano. Permangono la poetica della luce, dell’uso della struttura come fatto di natura e il segno sinuoso che rimanda, attraverso l’uso dei campi, a centralità esterne, assorbite nello spazio pubblico e dunque nella sfera civica, di cui è sempre presente un compendio nelle adiacenze di questi luoghi di culto: una piazza, un foro, un parco.

Ciò detto, coglie un piccolo sussulto di fronte agli elaborati del progetto vincitore del concorso indetto dalla Diocesi di Lamezia nel 2014, per la nuova concattedrale di San Benedetto, attualmente in fase di costruzione avanzata. Il tema del bando è d’interesse inusuale: realizzare un grande complesso inter-parrocchiale a supplenza della ridotta capacità dell’attuale e storica cattedrale, in un’area di nuova urbanizzazione a cavallo fra le tre circoscrizioni lametine riunite nel 1968 a formare il nuovo comune. Ovvero: un’area eletta a nuova centralità comunale, un tessuto contemporaneo a sutura di tre satelliti di tessuto storico, pressocché baricentrico ma ancora affacciato sul forese. Opportunità straordinaria per una città calabra di farsi laboratorio nazionale per le tante nuove realtà di neo-comuni da poco accorpati. Anche la prassi concorsuale è stata inedita: bando d’idee aperto a tutti i progettisti, gratuito ed anonimo, da cui scremare dieci soluzioni per la fase palese.

Il progetto di Portoghesi delinea un volume rigidamente scatolare, coperto da una non originalissima doppia falda simile al guscio di un carapace; simmetricamente due braccia di portici, che rimandano alla berniniana piazza San Pietro, abbracciano un enorme vuoto destinato a piazza civica, che connette la chiesa col Municipio. Lateralmente al volume principale, oltre il filtro del porticato, volumi di servizio per le funzioni pastorali, fra cui una mensa della Caritas. Una coppia di affusolate e un po’ estraniate torri campanarie si eleva antistante la facciata, a serrare l’accesso all’aula con una vistosa strombatura a salienti. Un repertorio di forme storiche, ma evidentemente lontane dalle raffinate elaborazioni cui Portoghesi ci ha per decenni abituato, nonché inverosimilmente incoerenti nel paesaggio costruito.

Un confronto con gli altri progetti concorrenti della seconda fase induce ad una riflessione. Il primo classificato ha eletto forme e materiali tradizionali. I tre premiati, e molti dei selezionati, sono accomunati dalla scelta di un volume liturgico autonomo, che grava drammaticamente sullo spazio pubblico e ne definisce il disegno, svuotandolo della sua virtuale pienezza. Questa pare la principale ingenuità, un’opportunità non colta di creare un fulcro nuovo per la città che fosse in dialogo vero con lo spazio pubblico, polifunzionale, policentrico, e che sapesse leggere e interpretare il ricchissimo contesto.

Che ne è della poetica dell’ascolto? L’erigendo scatolone non raccoglie nessuna tensione del paesaggio, non dialoga con le amene alture lametine, né respira sulla pianura opposta. Nessuna elaborazione del tema del verde. La chiesa s’apre su una piazza introversa, troppo grande: pare già di vederla, vuota e priva di centralità o ripari com’è, negli impietosi caldi calabresi. Non è l’architettura che qui fa lo spazio, ma l’icona: l’immagine stereotipa, persino un po’ surreale, di una chiesa-edificio come molte altre. Pare che il romanticismo di Portoghesi abbia eletto la didascalia come segno del sacro. O, meglio, qui è la dimensione civica e politica della chiesa che annulla ogni tensione a creare un luogo sacro. Ovvero, meno retoricamente, a creare un luogo, cioè un’esperienza aperta e polisemica.

 

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