Ponte Morandi, cronaca di una morte annunciata
Per il vicepresidente nazionale IN/Arch occorreva seguire la strada del restauro e reintegrazione di una testimonianza chiave del Moderno
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Già nel pomeriggio del 14 agosto, a crollo del viadotto sul Polcevera “ancora caldo”, cominciano a circolare voci su una sua presunta “tara genetica”, imputabile nientemeno che a un errore progettuale dell’illustre autore Riccardo Morandi: singolare capovolgimento, in nome del quale il collasso del “paziente” non va ascritto a carenza di cure preventive – mancata manutenzione – ma alla sua “cattiva costituzione” fisica. Ne discende che, trattandosi di un “soggetto malformato”, non ci si affretta a trasferirlo nel reparto di terapia intensiva, come sarebbe ovvio, ma si decide di eliminarlo in virtù della considerazione che, se è caduto in malattia, “è colpa sua”, della sua origine infelice.
Ipocritamente si attribuisce la furia distruttrice all’opinione pubblica genovese, che in realtà nutre il solo desiderio di vedere ripristinato al più presto il sistema della mobilità urbana e rientrate nelle loro abitazioni le famiglie evacuate per doverosa precauzione. Si sbandiera dunque un’altrettanto presunta irrecuperabilità dell’infrastruttura, che nessuna indagine scientifica ha seriamente diagnosticato, per attribuire al “popolo” – che l’ha percorsa fino a qualche ora prima – una sfiducia totale in qualsivoglia ipotesi di consolidamento e restauro delle parti ancora in essere (ovvero della quasi totalità della struttura, stante che il crollo ha interessato appena il 20% del suo sviluppo lineare): la “comunità locale”, a detta dei decisori, è indignata non contro coloro che con l’incuria hanno causato la tragedia, ma contro il viadotto “malnato e untore”.
L’IN/Arch, pur in presenza di una pluralità di declinazioni al proprio interno, fin dai primi giorni seguenti al crollo denuncia la minaccia rappresentata da un orientamento prevalente a livello istituzionale che, oltre ad essere pernicioso sul terreno culturale, avrebbe portato grave nocumento alla collettività genovese sotto vari aspetti: la circolazione urbana, anzitutto, che da un’operazione complicata come quella che si proponeva – a partire dalla drammatica difficoltà della demolizione – avrebbe ricavato solo anni e anni di ulteriore paralisi; in secondo luogo la distruzione di un patrimonio edilizio ingente rappresentato dai palazzi che avrebbero dovuto essere eliminati per far posto al “sacrificio” del viadotto; in terza istanza il prestigio culturale della città, sul quale sarebbe calata per sempre l’ombra della cancellazione di un bene culturale di altissima qualità, testimone eccellente della “rivoluzione industriale italiana”.
“A nulla valse” la battaglia che il meglio della cultura architettonica, strutturistica e della conservazione italiana ha condotto per evitare lo scempio: la demolizione è ormai in atto – cominciando subito a presentare tutte le previste difficoltà di esecuzione – in barba a una tradizione del nostro Paese che nel restauro degli edifici danneggiati da sinistri presenta un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale, che non deve interessare soltanto i beni culturali storici ma anche quelli moderni che, proprio per non essere troppo numerosi, vanno rigorosamente salvaguardati.
Così come nessuno pensa di demolire i monumenti antichi colpiti da sismi, alluvioni o semplici crolli, ma si punta a consolidarli e restaurarli, analogamente si sarebbe dovuto procedere al consolidamento e al restauro del ponte Morandi, reintegrandone il segmento collassato con un ponte nuovo, chiaramente distinguibile nelle forme e nei materiali. Un approccio che scaturisce dalla nostra più avanzata teoria del restauro, mirata alla conservazione rigorosa di quanto il passato ci ha tramandato e all’esercizio della creatività contemporanea non in oltraggio, ma in continuità dialettica con la storia.