Oltre lo sport: se lo stadio è (anche) un’icona
Un po’ tempio un po’ mercato, simbolo e paradosso, emblema dell’innovazione ma assai influenzato (o bloccato) dalla tradizione
Published 20 luglio 2021 – © riproduzione riservata
Mentre sta per partire la nuova stagione calcistica 2021-22, con le scommesse Italia in rilievo per quel che riguarda tutti gli appassionati di quote, pronostici e informazioni inerenti i risultati di campionato di serie A, Champions ed Europa League, la nostra inchiesta su stadi e arene (13 articoli, 10 autori, 30 progetti illustrati) restituisce una condizione complessa connotata sia da una progressiva ridefinizione, almeno teorica, dei rapporti tra architettura e sport (vince la suggestione della città come grande stadio), sia da un forte dinamismo (la contemporaneità richiede rinnovati standard di ospitalità e i nuovi progetti generano molti redditi per le società capaci di concretizzarli, ancor più se forme architettoniche estrose conferiscono un’immagine riconoscibile). Questo almeno a livello internazionale, perché i nostri articoli confermano come l’Italia stia conoscendo, anche su questo fronte, una forte resistenza alle novità. In una dinamica che però non sembra, d’altra parte, valorizzare adeguatamente il patrimonio di architetture sportive novecentesche.
Abbiamo sviluppato questo approfondimento in un periodo particolare. I campionati europei di calcio hanno rappresentato, simbolicamente e pragmaticamente, la progressiva riconquista di quella dimensione di passione ed energia che lo stadio porta intrinsecamente con sé (“Sventolano le bandiere, suonano le trombe, i razzi, i tamburi, piovono le stelle filanti e i coriandoli: la città scompare, la routine si dimentica, esiste solo il tempio. In questo spazio sacro, l’unica religione che non ha atei esibisce le sue divinità…” scriveva Eduardo Galeano).
Wembley – il tempio più volte rinnovato (qui lo abbiamo illustrato) in cui l’Italia ha celebrato il suo trionfo calcistico nella notte dell’11 luglio – è tornato a riempirsi di pubblico, sostituendo i silenzi e le paure della pandemia con il tifo e il colore. Un’evoluzione sorprendente a cui fa da contraltare quanto succederà invece a Tokyo, sede dell’altro grande evento sportivo del 2021 con la recrudescenza del Covid che spinge infatti a (ri)chiudere tutti gli impianti olimpici al pubblico.
Icona
In questa altalena tra chiusure e aperture, gli impianti sportivi non perdono certo il loro valore simbolico. Anzi, è una dimensione che le nuove tecnologie enfatizzano, giocando molto sulle immagini che involucri sempre più interattivi permettono di proiettare e diffondere. E così le facciate (già in transizione verso la tridimensionalità, basti pensare al nido dello stadio olimpico di Pechino 2008, che Herzog & de Meuron descrivevano così: “Le componenti sembrano dare forma ad un caotico boschetto di pilastri, travi e scale, quasi fosse una foresta artificiale. In questo spazio piranesiano, le persone si riuniscono in ristoranti, bar, hotel e negozi, oppure sulle piattaforme e sui percorsi di accesso che s’incrociano in orizzontale, diagonale e verticale”) acquisiscono ulteriore profondità come medium di messaggi, anche politici oltre che commerciali.
Proprio durante i recenti Europei, questo carattere architettonico ha generato un contrasto diplomatico: l’Allianz Arena di Monaco di Baviera (ne abbiamo parlato qui) era pronta, prima del divieto formale della Federazione calcistica europea, ad illuminarsi con i colori arcobaleno come messaggio di protesta contro le leggi anti-Lgbt dell’Ungheria, nazionale impegnata nel match con la Germania. Ma oltre ai gusci e alle immagini, è proprio la spazialità dello stadio ad esercitare un’influenza che oltrepassa spesso l’evento sportivo.
Gioca con i temi della sostenibilità l’installazione “For Forest – The Unending Attraction of Nature”, di Klaus Littmann in collaborazione con l’architetto paesaggista svizzero Enzo Enea: 300 alberi di alto fusto piantati, due anni fa, sul manto erboso del Wörthersee Stadion di Klagenfurt.
Sempre di alberi – cipressi, 35.000, collocati sugli spalti – è composta la suggestione di Angelo Renna, architetto italiano che vive e lavora ad Amsterdam. La sua visione di “San Siro 2.0 – Monumento per la vita” è la trasformazione della cosiddetta “Scala del calcio” (u impianto, peraltro, in una fase di profondo ripensamento, tra vari progetti alternativi e parecchie questioni non risolte, qui le immagini) in un grande memoriale delle vittime del Covid-19.
Non deve stupire, perché l’esperienza dello stadio è anche, spesso, associata a quella del dolore e della tragedia. Lo stadio nazionale di Santiago del Cile è stato trasformato – nei giorni drammatici del golpe di Augusto Pinochet, 1973 – in un enorme campo di concentramento. Quello stesso stadio che – alcuni anni dopo, è il 1979 – è il luogo scelto per una massiccia operazione di distribuzione ai cittadini di titoli di proprietà di terre confiscate. Un evento a suo modo epocale (e per questo raccontato nel Padiglione cileno della Biennale 2018 con l’installazione “Stadium: an event, a building and a city”, curato da Alejandra Celedón), perché spinge a ripensare il rapporto tra l’edificio sportivo e la città attraverso la planimetria di Santiago sovraimposta sulla pianta dell’impianto sportivo.
Immaginario
Molte di queste esperienze si devono evidentemente al forte impatto che gli stadi – più di qualsiasi altra tipologia edilizia – generano sull’immaginario collettivo. Non si contano i luoghi virtuali dove la passione legata a questo tema viene esercitata, in varie forme.
Ad inizio luglio, in piena febbre da Europei, è stato tra i trending topic di Twitter, generando migliaia di commenti e condivisioni, un thread di Joaquim Campa che ha pubblicato una raccolta di 41 immagini dedicata alle “The most amazing football pitch locations in the world”: campi di calcio amatoriali in straordinarie posizioni panoramiche tra foreste, ghiacciai, mari e città (a “rappresentare” l’Italia Castelmezzano, Venezia, Canazei e San Gimignano).
Quella sui luoghi dello sport è una ricerca che appassiona, e molto, anche gli esperti del settore. Paul Goldberger, firma del “The New Yorker”, uno tra i più influenti critici di architettura, s’impegna da anni in un’operazione di consapevolezza rispetto al patrimonio degli stadi di baseball negli Stati Uniti. Lavoro che si è concretizzato nel libro Ballpark: Baseball in the American City (Knopf Publishing Group, 2019, 384 pagine, 32 euro) e che prosegue, anche sui social media, nella direzione di “a fascinating, exuberant ode to the Edens at the heart of our cities – where dreams are as limitless as the outfields”.
Ma anche l’immaginario è soggetto a radicali cambiamenti. Come nel sorprendente intervento di riconversione del designer svizzero Rolf Sachs, che ha ricavato la sua abitazione privata dalla trasformazione del corpo longitudinale e della torre della pista di ghiaccio delle Olimpiadi invernali di Saint Moritz (nelle due edizioni del 1928 e del 1948), costruiti nel 1927 secondo le linee guida del Bauhaus e del Neoplasticismo. Oggi restano profilo e sagoma dell’edificio, spazio libero antistante dello stadio e contesto scenografico naturale circostante. Ma la funzione è completamente trasformata, con l’uso abitativo.
D’altronde, la contemporaneità obbliga a guardare oltre le dimensioni consolidate, pur innovative, dello stadio e dell’arena (così come l’abbiamo raccontata nella nostra inchiesta), verso orizzonti nuovi. Indicativo il fatto che Populous – di gran lunga lo studio di progettazione più importante a livello mondiale in tema di architettura sportiva, con 1.325 stadi costruiti, e una sede a Milano, dove lavora anche su San Siro) – si stia concentrando, negli ultimi anni, anche sugli spazi per gli e-sports, i videogiochi sportivi. Spazi chiusi, generalmente a pianta centrale, con podi per i giocatori virtuali e grandi schermi perché il pubblico possa condividere la partita tifando. Non sono stadi in senso stretto ma ne hanno tutti i caratteri architettonici.
Storie italiane
Atmosfera, quella delle arene e-sports, che allude, nei rendering almeno, ad anfiteatri e gladiatori, con mouse e tastiera al posto di elmi e lance.
Ma anche l’arena tradizionale per eccellenza, il Colosseo di Roma, ha fatto parlare di sé in queste settimane con la conclusione del – criticatissimo – concorso per la sua ennesima riqualificazione. Non interessa in questa sede il risultato (ne abbiamo parlato qui), ma l’attenzione che gli spazi dello spettacolo e dello sport suscitano, in Italia. Con esiti per tanti versi contraddittori, dovuti anche alla mancanza di una linea di gestione politica e amministrativa.
Con le recenti novità legislative, il Coni non sembra più avere alcuna prerogativa in materia, se non quella di formale controllo e approvazione dei progetti. Ma ideazione, concetto, costruzione di un quadro di priorità a livello nazionale sembrano essere temi che non appartengono ad alcuno. Ne è prova il fatto che i nostri tentativi di ospitare nell’inchiesta un punto di vista “politico” si sono scontrati con un’incomprensibile (almeno a noi) difficoltà ad individuare interlocutori disposti a parlare del futuro degli stadi nel nostro paese. E così l’impressione è che enti da una parte e società private dall’altra (molto spesso reciprocamente diffidenti) si trovino a giocare partite autonome e singole, senza un quadro di sfondo comune.
I 100 km che separano Parma da Bologna ospitano tre situazioni esemplificative di questo navigare in mare aperto dell’architettura sportiva italiana. Parma sta sperimentando, proprio in queste settimane, il consueto balletto: oggetto è il futuro del Tardini, stadio storico collocato in centro, di proprietà comunale. La società calcistica (statunitense) progetta – a colpi di rendering – una profonda rivisitazione. Il Comune sembra seguirla. Alcuni cittadini fondano un comitato (il Comitato Tardini sostenibile, e come se no?) per opporsi contestando gli impatti che genererebbe. Sembra prefigurarsi un lungo percorso.
A Bologna – dove invece si lavorerà due anni per ristrutturare uno stadio simbolo dell’architettura italiana come il Dall’Ara – la strada seguita sembra essere diversa e prevede la realizzazione rapida di uno stadio temporaneo, di 15.000 posti, destinato poi ad essere riconvertito per altre attività sportive. La sua localizzazione (oltre al nome: la FICO Arena) racconta anche dell’idea di usare uno stadio come strumento di rilancio di un’iniziativa (quella intorno al Centro agro alimentare, firmata Eataly) che sta avendo più d’una difficoltà a centrare gli obiettivi ambiziosi che si era data, pandemia a parte.
A metà strada tra Parma e Bologna c’è Sassuolo, il cui recente centro sportivo Mapei Football Center (progetto di Onsistestudio) è stato premiato con la menzione d’onore al recente Premio italiano di Architettura, definito dalla giuria “Edificio agrimensore, snello e preciso a bordo dei campi da gioco, che mette in luce il ruolo culturale dell’atto di insediamento in un contesto antropico, raccogliendo una tradizione di misura del territorio agricolo che reinterpreta alla luce di un decoro moderno cui attribuisce il bisogno di una comunità di festeggiare e rappresentarsi”. Dimostrazione, si potrebbe dire con una qualche dose di retorica, che si può fare buona architettura sportiva anche in Italia, e non solo da parte di professionisti italiani costretti a lavorare all’estero. Come nel caso del nuovo stadio nazionale albanese, a Tirana, costruito nel 2019 da Archea Associati, che ospiterà il prossimo anno la prima finale di una nuova Coppa internazionale di calcio, la UEFA Europa Conference League. Edificio iconico, con tanto di torre svettante, che va a sostituire – non senza un forte contrasto – un altro progetto italianissimo, del fiorentino Gherardo Bosio, a inizio anni quaranta.
Ma – anche se dirlo in momenti di euforia pallonara sembra blasfemo – l’architettura sportiva non è solo calcio. E allora pare doverosa una chiusura (che in realtà è un’apertura verso i temi del paesaggio, del territorio, del futuro) che guarda alle prossime, e ormai non così lontane, Olimpiadi di Milano-Cortina 2026: evento diffuso, sicuramente non così dirompente come altre edizioni dei Giochi invernali, ma capace di trasformare radicalmente alcuni luoghi con rinnovati campi di gara, in paesaggi molto sensibili. Proprio per approcciarsi criticamente agli interventi in programma è nato l’Osservatorio Cortina 2021, un progetto di ricerca artistica in cui, attraverso fotografie suggestive e di grande impatto, vengono restituiti gli esiti (fisico-spaziali ma anche culturali) dei Campionati del mondo di sci alpino, celebrati quest’inverno.
Il libro La valle tra le cime e le stelle / Osservatorio Cortina 2021 (di Gianpaolo Arena e Marina Caneve, in collaborazione con l’Agenzia creativa Vulcano, Quodlibet, 2021, 168 pagine, 28 euro) è il primo esito di un promettente percorso che sembra voler allenare i nostri sguardi verso un orizzonte più ampio e problematico. Le piste da sci, gli impianti di risalita, le tribune per il pubblico possono non essere un problema, pur in quegli straordinari campi di gara in mezzo alle vette dolomitiche, ma un’opportunità – se adeguatamente colta – per una valorizzazione capace di toccare tante corde diverse. E che, se vale per luoghi montani unici, a maggior ragione può adottarsi nelle città, per i loro (piccoli) stadi.
Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale