Oltre il recinto: tornare a scuola con una prospettiva urbana
DI CRISTINA RENZONI E PAOLA SAVOLDI
Tra pianificazione, uso allargato degli spazi, accessibilità delle strutture e necessità di ripensare alle relazioni tra scuola e città, lo stato dell’arte e le esperienze più significative tratteggiano un panorama di progetti pilota a cui affiancare un insieme più leggero di azioni partecipate
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Settembre: pronti per il rientro a scuola più di 8 milioni di studenti in Italia, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado. Pronti per entrare nelle aule, posare lo zaino a fianco del banco, attraversare i corridoi, salutarsi nell’atrio, fare ricreazione in cortile. Ma non solo. Pronti per un movimento quotidiano casa-scuola che attraversa la città e i territori, sale su scuolabus e autobus di linea, percorre – quando ci sono – piste ciclabili e marciapiedi, incrocia parchi e giardini pubblici, servizi di quartiere.
Se investimenti e interventi sull’edilizia scolastica assumono ciclicamente centralità di anno in anno nel dibattito pubblico alla riapertura delle scuole, oggi è particolarmente importante spostare il fuoco dell’attenzione e allargare il campo di osservazione assumendo una prospettiva urbana: uscire dal perimetro dell’edificio e del suo recinto e fare il punto su quali esperienze si stanno consolidando sulla relazione fondamentale tra scuole e città. Una tale prospettiva mette in primo piano le reti di prossimità e la trama dell’accessibilità per interventi che vedono la scuola al centro del discorso e dell’azione pubblica.
Da anni progetti di joint use (anche conosciuti con i termini di shared use o community use) propongono un ampio ventaglio di esperienze di uso allargato degli spazi delle attrezzature pubbliche al di là degli orari di esercizio e ad un’utenza estesa. Una questione evidentemente urbana e, per estensione, anche urbanistica. Ne è stato un esempio significativo negli ultimi anni il piano di New York, in cui l’obiettivo della distanza dei 10 minutes walk da un parco o giardino pubblico è stata perseguita dall’amministrazione della città annoverando nel numero degli spazi aperti pubblici anche i cortili scolastici e dando l’avvio al programma “Schoolyards to Playgrounds” che si appoggia ad una lunga tradizione radicata nella città nel corso del XX secolo.
Cosa stanno facendo le città italiane in questa direzione? È possibile riconoscere tre linee di sperimentazione che appaiono particolarmente promettenti, anche per la loro capacità di incrociare scale differenti e vari livelli di strumenti e di misure.
Un uso allargato degli spazi scolastici
Le scuole sono spazi pubblici, le cui regole di accesso e d’uso sono definite in relazione alle attività di formazione che vi si svolgono. Ad un uso esclusivo di scuole, attrezzature e spazi aperti di pertinenza, riservato ai soli studenti iscritti, si affiancano sempre più spesso numerose attività che coinvolgono fasce più estese della cittadinanza: la pratica più comune e consolidata consiste nel concedere, in orari pomeridiani, alcuni degli spazi scolastici ad associazioni che organizzano attività sportive o culturali. Ma non si tratta (solo) di questo: gli esperimenti più innovativi si spingono in due direzioni, entrambe meritevoli di attenzione.
La prima consiste nel prevedere la possibilità di aprire gli spazi delle pertinenze scolastiche a tutta la cittadinanza considerandoli parte del patrimonio di playground e spazi pubblici urbani. È ciò che accade laddove la storia e i caratteri tipologici degli edifici scolastici hanno da tempo questa impronta, oppure laddove la carenza di spazi aperti pubblici può poggiarsi sulle dotazioni scolastiche per migliorare la qualità della vita nei quartieri. Un esempio significativo è dato dall’iniziativa Cortili Scolastici Aperti, condotta da ITER (Istituzione Torinese per una Educazione Responsabile) – Città di Torino che da anni coordina una serie di progetti pilota che prevedono non solo l’apertura al pubblico dei cortili al di là degli orari scolastici, ma anche il loro parziale ridisegno, secondo processi di progettazione partecipata. L’aspetto più interessante, in questo caso, consiste nella capacità di prevedere, oltre agli adattamenti degli spazi resi disponibili, un adeguamento delle forme di gestione, attraverso un regolamento ad hoc che vede impegnata in via diretta l’amministrazione comunale.
La seconda consiste nel “fare rete” tra soggetti, istituzioni scolastiche e “comunità educanti” attive a diversi gradi di intensità sul territorio e nelle scuole, con l’intento di costruire e coordinare un insieme di progetti formativi (sportivi, musicali, culturali, sociali, occupazionali) che possano valersi di competenze e spazi differenti. Si tratta ad esempio della definizione di Patti educativi territoriali(come è accaduto nel Municipio 8 del comune di Milano), che confederano soggetti e attività i cui ambiti di azione hanno la scuola come baricentro, ma si estendono entro una geografia che corre tra quartiere e città. Il progetto Scuole Aperte 2.0 del Comune di Milano riconosce e affianca queste sperimentazioni, supportando, anzitutto grazie alla disponibilità degli spazi scolastici, forme di mobilitazione dal basso mirate a progetti di inclusione e ampliamento dell’offerta formativa.
Una città più accessibile per tutti: partire dalle scuole
Un secondo ordine di questioni riguarda il tema centrale dell’accessibilità e della mobilità sostenibile. Le linee guida che definiscono le misure dei PUMS (Piani della mobilità sostenibile) identificano la necessità di prevedere percorsi ciclo-pedonali sicuri casa-scuola, nonché di utilizzare ampiamente il dispositivo delle “zone 30” per promuovere azioni di moderazione del traffico (traffic calming) e di messa in sicurezza. Se pensiamo alle forme del woonerf olandese, o la più recente sperimentazione della super-manzana di Barcellona, risulta evidente come uno strumento apparentemente settoriale come la formazione delle zone di mobilità promiscua possa essere un’occasione importante di ridisegno stradale e quindi di riqualificazione dello spazio pubblico (della carreggiata, del marciapiede, della pista ciclabile, dello spazio della vegetazione).
Sono molte le amministrazioni comunali che si sono date come obiettivo nei prossimi anni la creazione diffusa di zone 30 e di pedonalizzazioni temporanee in prossimità di tutti gli edifici scolastici: una misura di grande importanza, che va però supportata da una cultura dello spazio della strada – e della mobilità – che faccia in modo che lo spazio del marciapiede di fronte all’ingresso della scuola sia non solo un approdo, ma anche un luogo di sosta di una rete articolata di percorsi e spazi pubblici.
Piani, programmi, progetti o politiche?
La storia del rapporto tra pianificazione urbanistica e pianificazione delle infrastrutture scolastiche è piena di occasioni mancate. Le scuole sono state spesso oggetto di piani d’area o di piani settoriali, agganciati da un lato alle previsioni demografiche, dall’altro alle politiche dell’istruzione.
Oggi si tratta senza dubbio di portare a termine la messa in sicurezza di molti edifici scolastici, ma anche di assumere le scuole come uno dei luoghi possibili per innescare processi di rigenerazione, oppure più semplicemente come tasselli da comporre con altri elementi, in una scala di prossimità, che contribuiscano a creare migliori condizioni di vita, nel quotidiano. Da questo punto di vista le sperimentazioni sono limitate. Ciò che accade più spesso è che entro progetti urbani di carattere integrato e centrati su aree bersaglio definite, si trovi anche una scuola (a titolo di esempio, il Piano quartieri, promosso dal Comune di Milano).
Più raramente, viceversa, è a partire dalle scuole che si prevede l’elaborazione di uno strumento che comprenda anche altri spazi della città (è il caso del Piano Periferie della Città Metropolitana di Firenze, illustrato in questo servizio grazie al colloquio con Cristina Giachi). In altri casi gli spazi scolastici sono presi in conto riconoscendone il rapporto con gli spazi verdi, gli spazi attrezzati per il gioco e lo sport, i percorsi pedonali e ciclabili, come accade nel Piano strategico delle aree gioco, elaborato alcuni anni fa da Laboratorio Città Sostenibile e dal Servizio Gestione Verde del Comune di Torino. Infine, sempre più spesso è il modo in cui si costruiscono concorsi pubblici per intervenire sulle scuole esistenti ad istruire e orientare un approccio progettuale che riguarda non solo i manufatti e le pertinenze scolastiche, ma un ambito di intervento più ampio.
Non c’è un solo modo per pensare e ripensare alle relazioni tra scuola e città. Uno strumento urbanistico che riguardi l’insieme del territorio comunale può contribuire a mettere a fuoco un insieme di interventi, prendendo in conto le condizioni delle dotazioni scolastiche congiuntamente ad altri ordini di questioni. Un buon concorso d’architettura può provocare un progetto con implicazioni fortemente urbane.
Poiché non è possibile intervenire su tutti gli edifici scolastici, la sfida maggiore consiste nel compiere scelte oculate, ben fondate, a partire da alcuni luoghi e progetti pilota su cui investire e a cui affiancare un insieme più leggero di azioni (già) delegate alla cittadinanza.
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Cristina Renzoni è ricercatrice in Urbanistica presso il DAStU – Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, dove insegna Urbanistica e Analisi delle trasformazioni territoriali. Si è occupata di pianificazione nazionale e regionale nell’Italia del secondo dopoguerra e attualmente lavora su spazi e ruoli dei servizi pubblici e delle attrezzature scolastiche nella città contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: Il Progetto ’80. Un’idea di Paese nell’Italia degli anni Sessanta (Alinea, 2012), Domande di genere, domande di spazi. Donne e culture dell’abitare («Territorio» 69/2014, con P. Di Biagi), Cinquant’anni di standard urbanistici, 1968-2018. Radici («Territorio» 84/2018), L’eredità degli standard urbanistici: partire dalle scuole (2019, con P. Savoldi).
Paola Savoldi è Professore Associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, dove insegna Politiche urbane e Urbanistica.
I principali campi di ricerca cui si dedica riguardano: i processi partecipativi nella definizione di progetti di trasformazione urbana, le politiche abitative, le politiche e i progetti d’uso pubblico delle dotazioni collettive, tra le quali, in particolare, quelle scolastiche.
Tra le pubblicazioni recenti: “L’eredità degli standard urbanistici: partire dalle scuole”, in Atti XXI Conferenza nazionale Società Italiana degli Urbanisti. Confini, movimenti, luoghi, Planum, 2019 (con C. Renzoni); “Faire la ville par projet: quels savoirs, quels effets?”, in D. Martouzet, a cura di, Les acteurs font le projet. Cadres, acteurs, décalages, Presses Universitaires François Rablais, 2018 (con L. Verdelli); “L’offerta abitativa: manufatti, attori, progetti”, in Territorio, n.78, 2016.