Nuovi spazi del lavoro: ridurre, riutilizzare e riciclare
Secondo Paolo Bedogni è la triade a fondamento del progetto di ogni spazio di lavoro
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Published 21 giugno 2021 – © riproduzione riservata
Sulla scia di una riflessione intorno ai cambiamenti negli spazi del lavoro nell’età industriale e post-industriale, Il Giornale dell’Architettura prosegue la propria inchiesta interpellando, attraverso quattro domande, progettisti noti per le loro realizzazioni nell’ambito. Dopo Enrico Frigerio (Frigerio Design Group) e Andrea D’Antrassi (associate partner di MAD Architects), proseguiamo con Paolo Bedogni.
L’architettura d’impresa dell’ultimo mezzo secolo ha visto un cambiamento evidente nelle sue strutture e nei suoi principi ispirativi. Tra fenomeni effimeri, di stile e tendenza, il mutamento pare lo abbia causato il mercato, che ha portato alla riduzione degli spazi di stoccaggio e all’ampliamento degli spazi di commercializzazione, ricerca e progetto. Nella sua attività di progettista come si rapporta a questo mutamento epocale? Qual è il suo modello ispirativo?
Quando si tratta di spazi di lavoro, l’architettura arriva a svolgere un ruolo fondamentale, come si evince dalle strategie dell’International Style fin dai primi decenni del XX secolo. Imprenditori industriali, artisti e critici si rifanno al movimento razionalista che tenta di “nobilitare il lavoro artigiano, collegandolo con l’arte e l’industria”, come afferma lo statuto del Werkbund, nel 1907. L’International Style è tradotto in un minimalismo a grande scala senza tenere conto del carattere dei luoghi, e con l’utilizzo di tecnologie improntate prevalentemente al profitto. Questo modello ha portato a un impatto ambientale rilevante, trascurando fattori fondamentali per la sostenibilità quali l’equità sociale, le differenze tra le varie culture e la salute dell’ambiente.
L’architetto oggi svolge un ruolo magisteriale, ossia presta un servizio per l’uomo che occupa la maggior parte del tempo nei luoghi di lavoro. La progettazione come servizio diventa il fondamento ispiratore per un’architettura sostenibile. Ne deriva un modello in grado d’ispirarsi ai sistemi naturali, capaci di offrire uno scambio di flussi di energia all’ambiente, si pensi ai giardini verticali di Jean Nouvel e al bosco verticale di Stefano Boeri. Lo scopo è sostituire con fonti energetiche rinnovabili gli idrocarburi fossili, realizzare il rinnovamento termico di tutti gli edifici, passare a una mobilità verde, inventare un’agro-ecologia e un’industria verde che venda servizi prima che merci. Il tutto per consentire la quarta rivoluzione industriale, quella del riparabile e del riciclabile.
Il filosofo Luciano Floridi nei suoi testi La quarta rivoluzione (2017) e Pensare l’infosfera (2019), ci fa comprendere come l’infosfera stia cambiando il mondo: tutto è trasformato dalla rivoluzione digitale e ciò in cui siamo coinvolti è trasformato dalle tecnologie. Il nostro approccio progettuale, condiviso dalla committenza imprenditoriale nei campi agroalimentare (come per Mutti a Parma) e dell’innovazione tecnologica (come per Assistec a Reggio Emilia), si fonda su questa filosofia.
Lo spazio del lavoro è anche lo spazio di una comunità – era la grande intuizione di Olivetti -, che si rapporta alla più ampia società e alla città, attraverso relazioni anch’esse in continuo cambiamento. Nella condanna di ogni ghettizzazione, la sola funzione per la quale la compartimentazione sembra ancora accettata resta proprio quella dei distretti industriali. Questa logica di pianificazione è ancora attuale? Nell’accelerazione causata della pandemia, l’incremento della virtualità influenzerà questi aspetti?
La triade ridurre, riutilizzare e riciclare diviene fondamento di ogni progettazione dei luoghi di lavoro. Tutto è in relazione, tanto che l’attuale pandemia è fatta risalire a una situazione di crisi ecologica e ambientale che coinvolge le componenti sociali e finanziarie a livello globale. Si vedano su questo i due testi di Gaël Giraud, Transizione ecologica (2015) e Per ripartire dopo l’emergenza Covid (2020), entrambi in «Civiltà Cattolica». È richiesto un vero e proprio cambio di stile, proponendo nozioni di “economia sociale di mercato” e di “capitalismo naturale”, per arrivare alla concezione di “ecologia integrale” che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali, come afferma papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ (2015). C’è bisogno di un cambio epocale, di una reindustrializzazione verde, ovvero di una quarta rivoluzione industriale, considerando che la crisi ecologica rischia di decimare altre specie viventi, rendendo l’uomo sempre più attaccabile da vari virus. La crisi ecologica garantirà pandemie ricorrenti.
L’architettura, la filosofia, l’economia, la socialità dei luoghi di lavoro al passo con le trasformazioni di quella rivoluzione, hanno bisogno di un loro affinamento per progettare luoghi felici, considerati come nuovi ambiti digitali, dove si trascorre sempre più tempo. Il magistero dei filosofi, ma direi anche degli architetti che si occupano di luoghi di lavoro, è necessario nel definire un progetto umano consapevole di tutte le trasformazioni dovute alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nel nostro progetto per i nuovi uffici Mutti la conservazione di un manufatto storico abbandonato ha permesso un suo riutilizzo, con il riuso dei materiali storici, nonché di tutte le finiture storicizzate, comprese le antiche gelosie. Tutto ciò senza spreco di suolo, con un alto valore di efficientamento energetico, migliorando la tenuta dell’involucro, con l’apporto solare delle vetrate a sud. Un equilibrio tra storia, natura e addizione innovativa, realizzato, su scala minore, anche nell’intervento per Assistec.
Il progetto degli spazi del lavoro pare improntato sempre più all’informalità, all’orizzontalità, conducendo, nei casi migliori, a una qualità ugualmente alta tra gli spazi dei dirigenti e quelli degli impiegati, tanto negli uffici quanto nei servizi garantiti. Secondo la sua esperienza, si tratta di vincolare all’affezione oppure di favorire la partecipazione? Le è mai capitato che questa partecipazione dell’intera comunità di produzione partisse già in fase di progetto?
Pensiamo i luoghi del lavoro, concepiti come nuovi ambiti digitali, nel rispetto di un progetto umano, con uno stile che accorci le distanze tra i diversi operatori. Chi li abita lavorando è chiamato a partecipare attivamente a questo sistema di cose nuove in relazione all’ambiente naturale, storicizzato e digitale. L’articolazione dello spazio invita chi lo abita a un continuo interrogarsi, perché posto a contatto con luoghi attraenti dentro un nuovo ambientalismo suggerito dalla filosofia dell’informazione. I materiali e i colori riconoscibili caratterizzano gli spazi dove l’incontro è favorito. I vuoti sono molteplici e trovano senso grazie al passeggiare che diventa parte creativa di continue ideazioni e incontri fecondi. La logica è quella di uno spazio di lavoro coinvolgente, che stimoli la partecipazione di ognuno nelle diverse mansioni.
Nel capannone produttivo per Assistec sono ben tradotte la filosofia di fondo del progetto e la coerente realizzazione eseguita nella cura dei particolari. La progettazione è stata condivisa tra committenza e comunità attraverso un’attenta analisi delle situazioni preesistenti e dei bisogni. L’ideazione dei luoghi partecipati è pensata costruendo innanzitutto una comunità di persone, che si costituisce per lavorare insieme, realizzando progetti anche in divenire come ricerca e sviluppo. La progettazione iniziale diventa quindi uno stile che coinvolge i luoghi e l’uomo che li abita nel tempo, sfruttando gli spazi dedicati alla socializzazione. Le ampie vetrate in tutti gli ambienti sono la cifra che definisce indistintamente l’identità di tutto il complesso tra spazi uffici, laboratori, sale corsi e luoghi produttivi del capannone. Il tetto verde, sul quale si affacciano le vetrate degli uffici, con sala ristoro e sala corsi, in primavera è divenuto uno spazio di riequilibrio ecologico da quando la fioritura ha attirato famiglie di api impegnate nella loro opera d’impollinazione.
Vorremmo ora fare una domanda che riguarda gli studi d’architettura come spazio d’impresa. Democrazia, flessibilità, integrazione, partecipazione sono infatti presupposti che si richiedono ai progetti. Valgono, però, anche per i progettisti? In altri termini, gli studi d’architettura – nella doppia accezione di gruppo e di spazio – sono luoghi di comunità e di equo compenso? I progetti di nuovi spazi per il lavoro sorgono in luoghi conformi ai principi che dovrebbero trasmettere e trasporre in architettura?
Lo slogan “piccolo è bello” ha sempre caratterizzato il nostro ambiente di studio, nel quale le relazioni interpersonali sono condivise nella pratica progettuale e lavorativa. Lo studio si trova nel quartiere storico di Porta Castello in Reggio Emilia, dove il lavoro si mescola con le attività sociali proposte in sito. Nell’atelier sono nate idee, con commercianti e residenti, che hanno prodotto iniziative di rigenerazione urbana, di mobilità sostenibile e attività socio-ricreative, per riavviare attività di molti negozi abbandonati: “Urban Renaissance” è stato il nostro happening verde meglio riuscito, su una strada completamente ridisegnata, che ha coinvolto centinaia di cittadini per un’intera settimana, a costo zero. La partecipazione di noi progettisti alla vita della città, in collaborazione con la mano pubblica, ha ispirato interventi di recupero del centro storico, con particolare riferimento al cosiddetto “Bando facciate”, che ha generato interventi di restauro per circa una quarantina di palazzi e case storiche.
La dimensione di partecipazione progettuale accoglie all’interno del nostro studio attività specialistiche dove il rapporto con giovani laureandi, neolaureati e collaboratori storici, nonché paesaggisti, strutturisti, termotecnici, diventa sinergia creativa per affrontare una progettazione integrata. I committenti stessi entrano a far parte di questo sistema che, prima di tutto, vuole essere ospitale, coinvolgente e di attrazione pedagogica. Il nostro procedere professionale è teso verso un progetto umano, perché nelle persone s’identifica lo scopo e il senso di tutto il processo. Ci sentiamo avvolti quindi dallo “spirituale nell’arte”, per dirla con Wassily Kandinsky, in una continua ricerca dell’essenzialità dove il meno è il più (come diceva Ludwig Mies van der Rohe), per creare spazi contemplativi, neutrali, attraverso un’architettura basata sull’onestà materiale e sull’integrità strutturale, con uno studio approfondito del particolare architettonico.
Chi è Paolo Bedogni
Fonda le sue radici culturali nell’architettura internazionale grazie all’architetto Giorgio Trebbi e al Centro di ricerca OIKOS di Bologna, dove si qualifica nella “Progettualità esecutiva dell’architettura”. Si occupa di restauro, con particolare riferimento a edilizia specialistica, materiali storici e tecniche tradizionali premoderne. È impegnato nel campo bioclimatico, della bioarchitettura e paesaggistico. Esperto nelle soluzioni energetiche, impiantistiche di sostenibilità del sistema-edificio, ha realizzato numerose prefabbricazioni in legno. Ha sviluppato progetti all’interno del complesso produttivo agroalimentare Mutti (Parma) e ha realizzato il nuovo insediamento tecnologico di Assistec (Reggio Emilia). È stato accreditato presso diverse soprintendenze nazionali con specifici incarichi di restauro (Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Abruzzo). Collabora con le università con contributi sull’edilizia specialistica e tesi di laurea. Ha scritto articoli su riviste specializzate e ha realizzato lavori sul territorio nazionale (Assisi, Todi, Lanciano, Prato, Camaldoli, Fano, Bari, Rovereto, Sant’Agata Feltria, oltre a quelli sul territorio emiliano).
* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project