Nuovi spazi del lavoro: no ai ghetti, sì alle interconnessioni sociali

Nuovi spazi del lavoro: no ai ghetti, sì alle interconnessioni sociali

Secondo Andrea D’Antrassi (MAD Architects) l’architettura oggi è nuovamente chiamata a mettere al centro dell’attenzione l’uomo e il suo benessere

 

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Published 31 maggio 2021 – © riproduzione riservata

 

Sulla scia di una riflessione intorno ai cambiamenti negli spazi del lavoro nell’età industriale e post-industriale, Il Giornale dell’Architettura prosegue la propria inchiesta interpellando, attraverso quattro domande, progettisti noti per le loro realizzazioni nell’ambito. Dopo Enrico Frigerio (Frigerio Design Group), proseguiamo con Andrea D’Antrassi, associate partner di MAD Architects.

 

L’architettura d’impresa dell’ultimo mezzo secolo ha visto un cambiamento evidente nelle sue strutture e nei suoi principi ispirativi. Tra fenomeni effimeri, di stile e tendenza, il mutamento pare lo abbia causato il mercato, che ha portato alla riduzione degli spazi di stoccaggio e all’ampliamento degli spazi di commercializzazione, ricerca e progetto. Nella sua attività di progettista come si rapporta a questo mutamento epocale? Qual è il suo modello ispirativo?

Il Deuscher Werkbund. Impossibile non pensare a Behrens, Muthesius e poi Gropius che hanno trasformato un mutamento epocale in un movimento e poi in architettura. In quel momento gli architetti erano interessati all’industria e gli industriali all’architettura, coincidenza perfetta tanto da dar vita a spazi come quelli della fabbrica dell’AEG a Berlino. Il concetto alla base della ricerca del movimento era quello di riuscire a creare degli ambienti che dessero dignità alle ore di lavoro degli operai, cercando così anche di contenere ed evitare lo sviluppo d’idee sovversive. L’impiego del vetro nelle fabbriche fu una rivoluzione, l’intento era nobilitare alla trasparenza e alla luminosità quello che fino a quel momento era stato mattone e fumo. Chiudendo gli occhi e passando dall’Europa dei primi anni del Novecento ad oggi, forse i principi del movimento tedesco sono ancora piuttosto attuali. Il mercato incide sul mutamento, l’innovazione e la ricerca hanno un nuovo ruolo commerciale, le idee sovversive ora vengono chiamate stress, il risultato è lo stesso. L’architettura è ancora una volta chiamata per mettere al centro l’uomo e il benessere lavorativo e sociale, e noi architetti abbiamo il dovere di rispondere.

 

Lo spazio del lavoro è anche lo spazio di una comunità – era la grande intuizione di Adriano Olivetti -, che si rapporta alla più ampia società e alla città, attraverso relazioni anch’esse in continuo cambiamento. Nella condanna di ogni ghettizzazione, la sola funzione per la quale la compartimentazione sembra ancora accettata resta proprio quella dei distretti industriali. Questa logica di pianificazione è ancora attuale? Nell’accelerazione causata della pandemia, l’incremento della virtualità influenzerà questi aspetti?

Non capisco il senso di questa paura: il mondo e la storia dell’architettura sono pieni di esempi d’integrazioni, rigenerazioni, attivazioni di spazi o quartieri a partire da interventi architettonici e urbani positivi. Quindi perché avere paura che questo processo di “positivizzazione” non valga anche per le industrie? Il concetto è semplice: immaginiamo di accompagnare un bambino triste ad una festa di bambini felici che giocando lo coinvolgono per ore. Al bambino è tornato il sorriso, forse perché dicono sia contagioso. È quello che succede alle nostre città, alle nostre attività. Ghettizzando i distretti industriali stiamo isolando il bambino triste nella sua tristezza. Noi architetti dobbiamo accompagnare anche le funzioni più tristi nelle città, dobbiamo integrarle e renderle vivibili e dare input al processo di attivazione sociale. Olivetti ha detto che “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare”. Forse non è paura, solo pigrizia. La pandemia ci ha “svegliati”, ci ha messi alla prova e stiamo reagendo in maniera inaspettata. Abbiamo accorciato le distanze, abbiamo scoperto nuovi modi di comunicare. Se, una volta fuori da tutto questo, ne sfrutteremo il ricordo come propulsore per un ulteriore lancio nell’innovazione sociale dei rapporti umani e delle parti di città, forse avremo vinto.

 

Il progetto degli spazi del lavoro pare improntato sempre più all’informalità, all’orizzontalità, conducendo, nei casi migliori, a una qualità ugualmente alta tra gli spazi dei dirigenti e quelli degli impiegati, tanto negli uffici quanto nei servizi garantiti. Secondo la sua esperienza, si tratta di vincolare all’affezione oppure di favorire la partecipazione? Le è mai capitato che questa partecipazione dell’intera comunità di produzione partisse già in fase di progetto?

Io credo che si tratti anche di attenzione. Guardiamo agli studi in campo psicologico e psichiatrico degli ultimi 15 anni che hanno messo a fuoco l’obiettivo sull’ambiente di lavoro. Ci dicono, in estrema ed assolutamente non esaustiva sintesi, che il lavoratore, qualunque sia il livello d’inquadramento o la sua mansione, se apprezzato, gratificato e sereno è più produttivo e motivato, e questo è un bene sia per la soddisfazione dell’individuo che per la società, l’azienda, per ogni grande o piccola realtà lavorativa. L’individuo che si sente distante dal proprio “superiore” in termini di trattamento ambientale e servizi di cui usufruire, può sentirsi vittima di un classismo ingiustificato che nuocerebbe al suo benessere psicofisico e di conseguenza comprometterebbe il suo operato e, quindi, la produttività aziendale. Un ambiente lavorativo informale, partecipativo e partecipato, non solo stimola creatività ed energia nuova ma riporta la dimensione lavorativa alla scala umana, valorizzando i rapporti tra individui in quanto tali, lasciando al passato il concetto di lavoro alienante associato all’uomo-macchina. In questo l’architettura gioca un ovvio fondamentale ruolo. Progettare gli spazi di lavoro, abbattendo le disparità e favorendo lo scambio e le interconnessioni sociali, è un obiettivo che MAD persegue ormai da anni, complice l’essere un passo avanti della realtà cinese in termini di smart working e benessere del lavoratore.

 

L’ultima curiosità riguarda gli studi d’architettura come spazio d’impresa. Democrazia, flessibilità, integrazione, partecipazione sono infatti presupposti che si richiedono ai progetti. Valgono, però, anche per i progettisti? In altri termini, gli studi d’architettura – nella doppia accezione di gruppo e di spazio – sono luoghi di comunità e di equo compenso? I progetti di nuovi spazi per il lavoro sorgono in luoghi conformi ai principi che dovrebbero trasmettere e trasporre in architettura?

Decisamente sì. L’architettura è, per MAD, il frutto di un confronto orizzontale, florido, in un clima basato sulla flessibilità d’approccio al processo progettuale e al team, possibile attraverso l’integrazione delle diverse discipline, dei più vari punti di vista, delle diversificate esperienze, e, sicuramente, arricchito dalla partecipazione di ogni designer. Insomma, in MAD il progetto è lo specchio della progettazione. In ogni fase progettuale, a partire dal concept, ogni progettista è chiamato a dare il suo contributo, anche il più giovane. L’architettura di MAD è conosciuta per il suo linguaggio organico, per le sue forme naturali ed al contempo futuristiche che si fondono con il contesto architettonico, paesaggistico e sociale nel quale sono immerse. Questo è possibile grazie al genio e all’intuizione di Ma Yangson che, con un segno, dà inizio al processo creativo che coinvolge ogni designer di MAD e che dà vita ad ogni progetto. Lavoriamo ogni giorno a grande velocità e, grazie anche alle tre sedi nel mondo, Pechino, Los Angeles e Roma, con un processo progettuale dal flusso ininterrotto. Questo è possibile sia attraverso le tecnologie di scambio dati e informazioni, sia attraverso gli spazi di lavoro dinamici e flessibili ove operiamo. Nella suddivisione dello spazio non ci sono gerarchie fisiche, condividiamo meeting room aperte ed informali, tavoli di revisione tra le file operative, il tutto condito da spazi relax fondamentali per rigenerare la mente al momento giusto. Questo favorisce uno scambio continuo, veloce e smart di opinioni in un ambiente ricco di stimoli e in continua crescita, l’ambiente MAD.

 

Immagine di copertina: MAD Architects, progetto di concorso per la Tour Montparnasse a Parigi

 

Chi è Andrea D’Antrassi

Nato in Italia, è abilitato in Italia e in Svizzera, dove si è laureato presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio. Con una solida esperienza maturata in progetti in paesi come Stati Uniti, Australia e Cina, da quando è entrato a far parte di MAD Architects nel 2010, è stato coinvolto nello sviluppo residenziale di via Boncompagni a Roma, nello sviluppo dell’Huangshan Mountain Village, nel Nanjing Zendai Himalayas Center e nel recente Lucas Museum of Narrative Art. Svolge anche un ruolo chiave nella scelta e preparazione dei concorsi ai quali lo studio partecipa.

 

* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project

 

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