Nuovi spazi del lavoro: dovranno incoraggiare la costruzione di una comunità
Secondo Mina Hasman (SOM) il progetto degli spazi del lavoro giocherà in futuro un ruolo maggiore nella definizione fisica, funzionale ed esperienziale delle città
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Published 4 ottobre 2021 – © riproduzione riservata
Sulla scia di una riflessione intorno ai cambiamenti negli spazi del lavoro nell’età industriale e post-industriale, Il Giornale dell’Architettura prosegue la propria inchiesta interpellando, attraverso quattro domande, progettisti noti per le loro realizzazioni nell’ambito. Dopo Enrico Frigerio (Frigerio Design Group), Andrea D’Antrassi (associate partner di MAD Architects) e Paolo Bedogni, Massimo Roj (Progetto CMR), James Finestone e David Hirsch (ARUP), concludiamo con Mina Hasman (SOM).
L’architettura d’impresa dell’ultimo mezzo secolo ha visto un cambiamento evidente nelle sue strutture e nei suoi principi ispirativi. Tra fenomeni effimeri, di stile e tendenza, il mutamento pare lo abbia causato il mercato, che ha portato alla riduzione degli spazi di stoccaggio e all’ampliamento degli spazi di commercializzazione, ricerca e progetto. Nella sua attività di progettista come si rapporta a questo mutamento epocale? Qual è il suo modello ispiratore?
Stiamo vivendo un cambiamento epocale nel modo in cui definiamo lo spazio del lavoro. Gli uffici, nel passato ampliati ad accogliere funzioni specifiche, ora probabilmente si contrarranno, facendo strada a una nuova era per il mondo del lavoro, fortemente modellato dalla digitalizzazione. Il ricorso al lavoro da remoto ha portato qualcuno a chiedersi: abbiamo ancora bisogno degli uffici? Io credo che questi continueranno a esserci, ma con una nuova finalità: incoraggiare l’interazione e la costruzione di una comunità. Quello del lavoro diventerà il luogo in cui unirsi con i nostri colleghi per sviluppare e seguire una motivazione comune. Il lavoro digitale non può sostituirsi a questo. Dovremmo sempre ricordare i vantaggi che comporta l’adattarsi al cambiamento. Agilità e adattabilità – che si tratti di un fatto culturale, o di uno spazio fisico – sono parte di ciò che significa essere resilienti. Ciò è necessario per la nostra evoluzione. Senza il bisogno di affrontare il cambiamento non falliremo, né impareremo, né cresceremo – ossia, non ci rinnoveremo.
Riflettere sul cambiamento è al centro del nostro lavoro di progettisti. Noi crediamo che gli edifici debbano servire gli utenti non solo in uno specifico momento ma per decenni, anche accogliendo funzioni che oggi non possiamo immaginare. Ecco perché il nostro modo di procedere si basa su un duplice approccio: anticipare i bisogni del futuro, e insieme fornire una flessibilità che tenga conto di necessità che non possiamo ancora prevedere. Pertanto, mi sento ispirata dal rigore che gli scienziati applicano nell’esplorare un’idea come possibile soluzione a un problema che ancora non esiste, ma che è probabile emergerà. Questo approccio proattivo e predittivo è ciò che ci si aspetta sempre più dai progettisti – soprattutto ora che dobbiamo far fronte a un gran numero di priorità in competizione tra loro (legate a salute, clima, economia), e fornire soluzioni in tempi brevi e su larga scala. Di conseguenza, il nostro ruolo di progettisti sta cambiando, e la nostra responsabilità aumentando. Il progetto non è più solo l’esito di considerazioni estetiche, ma anche la misura di una prestazione. Sta emergendo un nuovo rigore informale – con una mentalità imprenditoriale, fondata su una valutazione continua di dati e informazioni -, particolarmente cruciale nel progetto e nella gestione degli spazi del lavoro, una delle tipologie in più veloce trasformazione del nostro tempo.
Lo spazio del lavoro è anche lo spazio di una comunità – era la grande intuizione di Olivetti -, che si rapporta alla più ampia società e alla città, attraverso relazioni anch’esse in continuo cambiamento. Nella condanna di ogni ghettizzazione, la sola funzione per la quale la compartimentazione sembra ancora accettata resta proprio quella dei distretti industriali. Questa logica di pianificazione è ancora attuale? Nell’accelerazione causata della pandemia, l’incremento della virtualità influenzerà questi aspetti?
Il lavoro gioca un ruolo fondamentale nel garantire che le comunità si sviluppino, che l’economia prosperi, che le città si rigenerino. Considerate le previsioni dell’ONU, secondo cui nel 2050 i due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle città, ci sarà una relazione sempre più simbiotica tra queste e le persone. Il lavoro è una componente chiave nell’alimentare tale rapporto, e nel consentire lo scambio necessario per la crescita, l’innovazione e l’adattamento. Di conseguenza il progetto degli spazi del lavoro giocherà un ruolo maggiore nella definizione fisica, funzionale ed esperienziale delle nostre città. Uno degli edifici iconici di SOM, la Lever House a New York, è prova di come il progetto di un edificio e delle sue immediate vicinanze possa trasformare e rafforzare questa relazione: piazza e atrio sono utilizzati come spazi espositivi, che attraggono il pubblico attorno e dentro l’edificio, invitandolo a interagire attivamente con questo nella cornice unica di Manhattan.
Il progetto dello spazio del lavoro evolverà, come la digitalizzazione inevitabilmente continuerà a rendere le nostre città più fluide, abbattendo le attuali compartimentazioni. Questo è uno dei risultati dei tanti cambiamenti introdotti nelle città: l’aumento della popolazione sta conducendo a comunità sempre più diversificate, che mescolano culture, tradizioni e comportamenti. Quelle che oggi possono sembrare comunità distinte si sovrapporranno, come le città si densificheranno e i confini tra quartieri saranno meno definiti. Altro cambiamento che sta dando nuovo forma alle città riguarda l’avanzamento delle tecnologie AI, e l’incremento delle infrastrutture di comunicazione che vediamo organizzate per tutto l’ambiente urbano. Anche nel nostro settore stiamo già osservando la crescente automazione di molte attività tradizionalmente manuali, come la modellistica (ora perlopiù automatizzata con la stampa 3D). A ogni modo, ciò non dovrebbe esser visto come un segnale della fine del lavoro manuale, bensì come l’inizio di una nuova era di ottimizzazione, efficienza e adattabilità – attributi fondamentali per una resilienza a lungo termine nel nostro mondo in continua evoluzione. Risorse condivise e un continuo scambio d’informazioni stanno definendo anche la pianificazione di distretti urbani, dove i luoghi del lavoro saranno favoriti se fatti convergere in edifici polifunzionali, così che possano diventare parte integrante di un ecosistema cittadino vivibile, salutare e sostenibile. Più di mezzo secolo fa, SOM è stato pioniere di questo approccio col primo esemplare al mondo di torre polifunzionale, il John Hancock Center di Chicago. In tempi più recenti abbiamo esteso tale concept al progetto di quartieri cittadini, di cui il Charenton-Bercy Redevelopment a Parigi rappresenta un caso esemplare.
Il progetto degli spazi del lavoro pare improntato sempre più all’informalità, all’orizzontalità, conducendo, nei casi migliori, a una qualità ugualmente alta tra gli spazi dei dirigenti e quelli degli impiegati, tanto negli uffici quanto nei servizi garantiti. Secondo la sua esperienza, si tratta di vincolare all’affezione oppure di favorire la partecipazione? Le è mai capitato che questa partecipazione dell’intera comunità di produzione partisse già in fase di progetto?
È stata l’invenzione dell’open space, negli anni novanta, a introdurre il concetto d’informalità: come successo con gli uffici a cubicolo degli anni sessanta, la pianta libera è il risultato di una trasformazione epocale per il mondo del lavoro. Ciò ci ha condotti a lavorare in maniera aperta e collaborativa, e a depotenziare la gerarchia aziendale, portandoci tutti a un livello umano; introducendo un livello di comfort e confidenza uguale per chiunque sia attorno al tavolo, e sostegno per idee creative. Da quel momento il progetto degli spazi del lavoro è stato fondamentale per alimentare quel tipo di comportamento, e per promuovere un equo accesso a funzioni e spazi di alta qualità, ritenuti essenziali per garantire quell’innovazione ricercata dal movimento neomodernista. Questa evoluzione si è manifestata nel progetto degli edifici per uffici, degli spazi interni e pure dei prodotti: la celebrazione delle facciate vetrate era una scelta consapevole per massimizzare l’ingresso di luce diurna, onde migliorare benessere e produttività. La disposizione strategica di tavoli usati per lunghe ore, in punti dove allo sguardo sarebbe consentita una connessione continua con la vita della città, e, in anni più recenti, la realizzazione di aree relax informali con l’inserimento di arte, verde, e una distribuzione organica di arredi singolari quali poltrone a sacco e scrivanie con tapis roulant, permettono di porre il benessere al centro del progetto, diventando un’aspettativa improrogabile degli imprenditori. Il progetto fa parte dell’industria creativa, e la creatività è arricchita soltanto quando differenti prospettive e idee sono condivise. Ciò richiede uno scambio continuo e libero, e un primo impegno con gli utenti finali può facilitare la trasformazione di un’idea in un risultato misurabile ed efficace. Come l’approccio interdisciplinare è radicato nella filosofia di SOM, noi siamo abituati a coinvolgere più attori possibili lungo il processo progettuale, fin dall’inizio. Ciò ci permette di curare i progetti in base agli specifici bisogni dei futuri occupanti, e di responsabilizzare questi a diventare parte attiva in quel processo – il nostro progetto per lo United Nations Campus a Ginevra è un’importante prova di tale approccio, che noi immaginiamo determinerà un’alta soddisfazione degli utenti e un rendimento a lungo termine dell’edificio una volta occupato, entro quest’anno.
L’ultima curiosità riguarda gli studi d’architettura come spazio d’impresa. Democrazia, flessibilità, integrazione, partecipazione sono infatti presupposti che si richiedono ai progetti. Valgono, però, anche per i progettisti? In altri termini, gli studi d’architettura – nella doppia accezione di gruppo e di spazio – sono luoghi di comunità e di equo compenso? I progetti di nuovi spazi per il lavoro sorgono in luoghi conformi ai principi che dovrebbero trasmettere e trasporre in architettura?
Sì, certamente. Il progetto di uno studio d’architettura è riflesso e allo stesso tempo coronamento della creatività, approccio e visione della cultura che emana l’azienda. Ciò è limitato solo dai confini invisibili determinati dallo spazio del lavoro, dalla sua cultura e dalle persone che lo vivono. Definire uno spazio del lavoro salutare non è un compito semplice, come non lo è soprattutto definire quello destinato a uno studio di progettisti, basato su un’integrazione riuscita d’intelligenza e creatività di menti individualiste e tuttavia dinamiche. Ciò è particolarmente impegnativo quando si aggiungono interdisciplinarietà e internazionalità – come facciamo in SOM -, in cui individui di provenienze diverse cercano costantemente di fornire soluzioni unitarie, olistiche e innovative a progetti in tutto il mondo. Questo è ciò che arricchisce il lavoro in SOM, definendo uno spazio del lavoro inclusivo, produttivo e stimolante. Progettisti di ogni livello hanno la stessa opportunità di presentare e discutere idee, di contribuire con le loro competenze, e dare forma in maniera collettiva alla visione di ogni progetto. Il nostro ufficio comunica il modo in cui progettiamo e forniamo spazi di lavoro salutari e inclusivi per altri. I nostri spazi di lavoro, a Londra, New York, Chicago, San Francisco, riflettono i nostri valori, il nostro approccio, l’attenzione verso il progetto. Ognuno di questi spazi prevede luce naturale e vista sulla città; l’uso di materiali naturali, a creare un senso d’informalità, familiarità e confort; aree diversificate, a soddisfare le esigenze del lavoro individuale o collettivo; il controllo degli spazi personali; verde ovunque. Oltre al progetto d’interni, abbiamo colto l’occasione per disporre alcuni di questi uffici dentro edifici pure disegnati da SOM – consentendoci di connettere interno ed esterno, l’eredità della nostra azienda e il futuro, all’interno di un’unica, olistica esperienza, autentica della nostra filosofia progettuale. Queste sono le strategie chiave che noi mettiamo in campo in tutti i nostri uffici e nei nostri progetti per spazi del lavoro.
Chi è Mina Hasman
Guida il settore sostenibilità e benessere di Skidmore Owings e Merrill e la visione a lungo termine per raggiungere l’eccellenza nella pratica. Ha esperienza in un’ampia varietà di progetti nel Regno Unito, in Europa, Medio Oriente e Asia, portando una maggiore comprensione delle implicazioni per la progettazione sostenibile ed equa in diversi contesti climatici, sociali e normativi. In qualità di esperta riconosciuta nel suo campo, è stata eletta ed è attivamente coinvolta nel Board of Trustees dell’UKGBC, nel RIBA Ethics & Sustainable Development Executive Leadership Group, nella Task Force COP26 dell’UNEP/GlobalABC (come punto focale della Commonwealth Association of Architects’ ), il Comitato per i cambiamenti climatici del Consiglio dell’industria delle costruzioni (Regno Unito), l’intero gruppo di attività sul carbonio di WorldGBC e il gruppo consultivo sull’equità sanitaria dell’IWBI.
* L’inchiesta “Workplaces XXI Century” è realizzata con il supporto di Open Project