New York: dalla FOMO alla DOMUS
Può, questa, essere l’opportunità per architetti e designer, per approfondire concetti basici di luogo e spazio?
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Brooklyn, 6.500 km da quel concetto di casa che gli italiani conoscono; perché casa, a New York, non ha lo stesso significato. Le persone non sono abituate a stare ferme nella città che non dorme mai. Soprattutto, non sono abituate ad avere confini. Non lo hanno mai fatto e, ora, si ritrovano a farlo; chi nel lussuoso appartamento nel West Village e chi nella scatola da scarpe a Brooklyn, chi da solo e chi con quattro coinquilini da tutte le parti del mondo. I newyorkesi si sono seduti, a casa, come se fosse la prima volta.
Nella Grande mela si parla spesso del concetto di FOMO (fear of missing out), intesa come paura di avere troppo poco tempo e troppe cose da fare in questa città che, per definizione, non si ferma. Ed ora, dalla FOMO alla DOMUS.
In questo momento storico tutto è instabile; si ha paura e ansia di un futuro che non si riesce a intravvedere. Proprio nel momento in cui il mondo è obbligato a fermarsi, si realizza l’importanza di un’architettura che è sempre stata scontata: la casa. «La mia casa è il mio rifugio, un’architettura emozionale», diceva Luis Barragán.
Può, questa, essere l’opportunità per architetti e designer, per approfondire concetti basici di luogo e spazio? Ora siamo obbligati a confrontarci con nuove emozioni e timori, possono l’architettura e il design essere un aiuto? Si osservano cose, tra le quattro mura, che prima non avevamo il tempo di osservare, capiamo che cosa piace e che cosa rende felici. L’uomo non è abituato a reggere a situazioni di allerta e paura prolungati, soprattutto in un luogo circoscritto; un isolamento che può portare ad un livello di stress elevato, con cui l’umanità moderna non si era mai scontrata in precedenza. Siamo tutti in survival mode.
In psicologia c’è una tecnica chiamata “5-4-3-2-1’’, usata per chi soffre d’ansia e attacchi di panico, quando ci ostiniamo a controllare l’incontrollabile, questo esercizio aiuta a sentirsi grounding, focalizzati nel vivere quello che sappiamo, il presente, e di non avere paura di quello che non sappiamo, il futuro. Un concetto in grado di rifocalizzare l’attenzione a “qui ed ora”, l’unica cosa che possiamo gestire.
5: Pensiamo a 5 cose che vediamo intorno a noi. Una finestra su un cortile, la luce naturale del corridoio, le piastrelle colorate della cucina. Come ci fanno sentire?
4: Pensiamo a 4 cose che possiamo toccare intorno a noi. Una curva nella parete, una superficie ruvida, il pavimento in legno sotto i piedi. Come ci fanno sentire?
3: Pensiamo a 3 cose che riusciamo ad ascoltare. Può essere il rumore di un treno, del traffico, degli uccelli, del vicino di casa. Come ci fanno sentire?
2: Pensiamo a 2 cose di cui sentiamo il profumo. Il prato appena tagliato, l’odore del pesce al cartoccio proveniente dalla cucina. Come ci fanno sentire?
1: Pensiamo ad 1 cosa a cui siamo grati in questo preciso istante.
Interessante è capire come un oggetto, un profumo, un rumore, un pensiero siano tramiti per concretizzare un’emozione in un preciso spazio; e come lo stesso spazio, incubatore, possa generare reazioni positive e negative sull’uomo. L’architettura diventa psicologica, i moti affettivi della persona si materializzano. Molti studi sono stati fatti negli Stati Uniti sulla neuro-architettura, soprattutto all’Academy of Neuroscience for Architecture (ANFA) a San Diego e alla Pratt Institute School of Architecture a Brooklyn, dove si approfondisce l’interazione tra ambiente e salute, dove emerge l’importanza dello spazio come fonte di piacere, benessere e identità collegati ad un’architettura emozionale che si contrappone alla progettazione tradizionale. Immaginiamo d’integrare questa semplice tecnica psicologica “5-4-3-2-1” negli edifici che costruiamo, agli interni che progettiamo, all’arredamento che scegliamo. Molto spesso viviamo dissociati dal luogo che ci circonda, ma finalmente ci siamo seduti sul divano e stiamo guardando come la luce entra e si riflette sulle pareti, come i colori influenzino il nostro umore, come i materiali al tatto siano armoniosi; una tecnica che si focalizza sul dettaglio.
Ripensiamo e invertiamo la logica progettuale; prendiamo il tempo di capire lo spazio. Immaginiamo per un istante di essere all’interno dell’Oculus progettato da Santiago Calatrava o nel Pantheon e proviamo a fare questo esercizio, quale sarebbe il risultato? È forse arrivato il momento di approfondire un altro tipo di architettura psicologica, portando le emozioni ad un livello razionale e quindi funzionale (grounding)? Steven Holl descrive la sua architettura come interazione tra mente e corpo, partendo da una distinzione accentuata da Albert Einstein sulla differenza tra pensiero ed emozione, che può essere riconducibile ad un approccio tradizionale e a volte freddo dell’architettura contemporanea. L’architetto come psicologo dello spazio, dove la collaborazione e l’integrazione emozionale del cliente diventa fondamentale.
Il mondo è in pausa, le emozioni no.
Architetta, laureata al Politecnico di Milano, vive e lavora a New York dal 2013, dove si occupa di progetti nella Grande mela e all’estero. Ha lavorato presso lo studio Frederic Schwartz Architects e attualmente presso Romines Architecture, dove ha collaborato alla realizzazione del nuovo quartiere di River Park, che ha cambiato lo skyline di Brooklyn. In precedenza ha fatto esperienza a Milano presso lo studio di AUFO architectural & Urban Forum e a Parigi presso Dominique Perrault Architecture