Martien de Vletter: il CCA pioniere nell’archiviazione digitale
La direttrice associata delle collezioni del Centro canadese per l’architettura illustra le strategie di catalogazione ed esposizione degli archivi, a partire dal programma «Archaeology of the Digital»
MONTREAL. Il CCA (Centro canadese per l’architettura) ha scelto fin dalla sua fondazione (nel 1979 grazie alla volontà di Phyllis Lambert) di concentrare l’attenzione sulla costruzione del proprio archivio e sulla cura della collezioni di architettura che, ad oggi, con numeri che parlano da sé (100.000 tra disegni e stampe, 60.000 fotografie, 215.000 volumi e più di 5.000 periodici) risulta essere un patrimonio tra i più forniti presso le istituzioni internazionali. Gli archivi di architettura relativi al XX e XXI secolo sono 148: tra le acquisizioni compaiono Peter Eisenman, Cedric Price, Aldo Rossi, Louis Kahn, Herzog & de Meuron, Gaetano Pesce, Alison + Peter Smithson, Gordon Matta-Clark. Più recentemente, il CCA ha intrapreso un programma di ricerca sulla produzione digitale che prevede seminari, incontri pubblici e pubblicazioni «per investigare l’applicazione e lo sviluppo del disegno digitale in architettura come primo passo nel definire una strategia di collezione dell’architettura digitale». Ne parliamo con Martien de Vletter, dal 2012 direttrice associata delle collezioni.
Il programma «Archaeology of the Digital» esordisce nel 2013 con una mostra nata da un’indagine sulle fondamenta dell’uso del digitale nella progettazione, attraverso la scelta di opere di Frank Gehry, Peter Eisenman, Chuck Hoberman, Shoei Yoh, Galaxy Toyama. Può illustrarci il progetto e i risultati finora raggiunti?
«Archaeology of the Digital» è un programma di ricerca pluriennale curato da Greg Lynn e seguito dal CCA dal 2012. Consiste in una ricerca di approfondimento e una lettura del percorso che il digitale ha tracciato in architettura, attraverso 25 progetti chiave, dalle prime sperimentazioni degli anni ottanta fino al 2000. I progetti selezionati fanno capo ad alcuni fra i protagonisti del dibattito progettuale e della tecnologia digitale, ciascuno dei quali ha in qualche modo influenzato la storia recente dell’architettura. E come risultato, la ricerca ha portato alla definizione di una strategia di acquisizione dei materiali digitali e la costituzione di un archivio. Dal 2013, il CCA ha presentato tre mostre a cura di Lynn («Complexity and Convention», inaugurata lo scorso 10 maggio; «Media and Machines», del 2014, e «Archaeology of the Digital», del 2013). Abbiamo curato una pubblicazione cartacea e una seconda è in arrivo. Intanto continuiamo le pubblicazioni on line via I-tunes. La serie verrà completata entro fine 2016. Aggiungo che, vista la complessità, il progetto ha richiesto la partecipazione di diversi dipartimenti: Collezioni, Programmi, Pubblicazioni, Ricerca e Tecnologia; in questo senso, ha permesso di approfondire diversi aspetti dell’archiviazione digitale, un ambito per cui il CCA è riconosciuto pioniere.
Gli architetti autori dei 25 progetti sono stati intervistati e le interviste raccolte in una sorta di storia orale che diventa fonte preziosa d’indicazioni e strumento utile per la comprensione dei contesti progettuali rilevanti, aiutandoci ad individuare il modo più adatto per gestire la parte digitale di un archivio. Saranno presto pubblicate on line.
Dato l’obiettivo di rendere accessibili gli archivi digitali come materiali di ricerca, ne abbiamo pianificato la modalità di conservazione e una guida alla catalogazione. Anche perché, alcuni dei progetti sono stati sviluppati con software ora obsoleti, e questa è una grande sfida per la conservazione del digitale. Dal 2015 si è infatti unito alla nostra squadra un archivista digitale. In questo momento, stiamo lavorando all’archiviazione dei 25 lavori, fornendo possibilità di accesso alla descrizione dei file in situ. Durante l’operazione di conservazione, utilizziamo un dark archive ed abbiamo dato inizio alla fase di descrizione. La consultazione per ora è possibile al CCA, non ancora on line.
È prevedibile che l’archiviazione digitale avrà sempre maggiore impatto su quella cartacea. Rispetto alla vostra esperienza, in che modo progettisti ed istituzioni sono in grado di gestire i documenti?
Esistono diversi modi di gestire un archivio di architettura. Solitamente, se si è in grado di gestire quello cartaceo, si è allora capaci di gestire il digitale. Quindi per rispondere alla domanda: alcuni sono bene organizzati, altri no. Posso però dire che la differenza evidente tra cartaceo e digitale è che con la carta ciò che vedi è ciò che possiedi, con il digitale non è così. Succede, ad esempio, di ricevere un hard drive dove solo una parte del materiale è accessibile, e il resto si rivela difficile da aprire. E se si è in grado di accedere ai documenti e conservarli, è necessario in ogni caso distinguere cosa si deve cercare, e cosa è significativo conservare. Un disegno Cad può avere diversi layers, e non è scontato individuare quelli determinanti nel processo progettuale: per comprendere appieno un archivio digitale, non si può evitare di confrontarsi con l’autore. Quindi è senza dubbio fondamentale che i progettisti prendano in seria considerazione il record management. Per se stessi e per i processi progettuali che seguono in primo luogo, e per le istituzioni che di archivi si occupano. In ogni caso, il CCA ha da sempre un approccio al tema molto specifico: non siamo interessati al digitale in sé, alle varie tecnologie cui il digitale porterà. Il nostro interesse punta là dove il digitale ha mutato in maniera significativa il modo di pensare e fare architettura. Il nostro non è un interesse per tutti gli archivi, o tutti i tipi di collezioni, ma piuttosto una modalità curatoriale selettiva.
Volendo considerare il ruolo del museo nell’ambito della cultura digitale, ritiene che siano le istituzioni i soggetti destinati ad indicare gli strumenti e le competenze da seguire?
Non c’è dubbio che le istituzioni rivestano un ruolo più ampio della sola capacità di conservare e rendere accessibili le collezioni. Per il CCA, il progetto «Archaeology of the Digital» si sta rivelando una modalità utile per comprendere il significato e l’importanza del digitale in architettura. Gli strumenti di cui i musei e i centri archivistici dispongono, possono essere usati anche dagli architetti, anche se deve essere chiaro che si tratta di una massa di materiali differente, il che implica metodologie di gestione diverse.
Nella progettazione, la produzione di materiale digitale rappresenta la maggioranza del patrimonio. Per i musei la sfida è conservare e mettere in mostra tale materiale. Riguardo le collezioni, esistono criteri che il CCA ritiene essenziali per acquisire archivi digitali?
Nella nostra strategia di acquisizione, non rientrano criteri specifici riguardo le collezioni digitali. Cerchiamo di guardare ai contenuti, valutando piuttosto quei casi in cui progetti e persone hanno influito sul modo di affrontare il progetto, anche mentalmente. I 25 lavori selezionati da Lynn sono a suo avviso determinanti nella divulgazione della cultura progettuale e digitale; la maggior parte di essi mostrano una sperimentazione estrema. Ciò ha reso il progetto estremamente complesso; ma è affrontando le varie problematiche emerse che saremo in grado di gestire archivi digitali che riceviamo, come per esempio quello di Alvaro Siza nel 2014. Il CCA ha preso parte alla produzione della mostra «Neighbourhood, Where Álvaro meets Aldo», inaugurata in occasione della Biennale di Venezia di quest’anno.
Riguardo le esposizioni, come cambierà il nostro modo di visitare una mostra di architettura?
Domanda interessante. Posso dire che avvertiamo un qualche cambiamento del pubblico, non solo nel modo di visitare le mostre ma anche in termini di ricerca. Spesso gli storici non hanno particolare dimestichezza con la materia digitale. Vediamo un interesse maggiore da parte di chi studia comunicazione o digital humanities. Nel momento in cui andiamo ad esporre documentazione digitale non incorniciamo più semplicemente un disegno ma mostriamo un documento creato in 3d formZ su un Ipad, in un contesto e modalità completamente diversi, dunque. Ma non credo esista estrema differenza nel vedere in mostra un disegno del XVI secolo o un’animazione di Gehry: possono essere interessanti allo stesso modo e, in ogni caso, affinché venga raccontata, l’architettura ha sempre bisogno di un contesto.
[lightbox_gallery columns=”5″ size=”” hover_zoom=”yes”]
[image src=”https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/wp-content/uploads/2018/01/4161752410.jpg” alt=””]
[image src=”https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/wp-content/uploads/2018/01/1292054148.jpg” alt=””]
[image src=”https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/wp-content/uploads/2018/01/1363819466.jpg” alt=””]
[image src=”https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/wp-content/uploads/2018/01/2553883172.jpg” alt=””]
[image src=”https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/wp-content/uploads/2018/01/2926556924.jpg” alt=””]
[/lightbox_gallery]
Per approfondire
Chi è Martien de Vletter
Nata ad Amsterdam nel 1972, dopo gli studi in storia dell’arte ad Amsterdam, lavora al NAI (Netherlands Architecture Institute) di Rotterdam, di cui è curatrice capo dal 2003 al 2008. Dopo un periodo presso la casa editrice SUN architecture, da settembre 2012 ricopre il ruolo di direttrice associata delle collezioni del Centro canadese per l’architettura.
Nata a Torino nel 1978, è architetta e si occupa di relazioni con la stampa per l’architettura. Dopo diverse esperienze come ufficio stampa in studi internazionali – tra cui studio Fuksas e Matteo Thun – ha fondato con Elisa Luconi Based Architecture, un’agenzia di consulenza per l’architettura che unisce le competenze dell’ambito della comunicazione a quelle del record management