Marco Bussone: i paesi sono paesi, non borghi
Per il presidente dell’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani il bando del MIC è stata una lotteria. Servono invece misure specifiche per le aree rurali e montane
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Published 3 maggio 2022 – © riproduzione riservata
Giornalista professionista, Marco Bussone ha studiato Scienze della comunicazione all’Università di Torino, città dove è nato nel 1985 e dove risiede. Dal 2018 è presidente nazionale di Uncem, l’Unione dei comuni, delle comunità e degli enti montani. Dal 2020 è inoltre presidente della Fondazione Montagne Italia. Oltre a scrivere su diversi giornali e riviste, è membro del consiglio di amministrazione di PEFC Italia, associazione senza fini di lucro che promuove la gestione sostenibile delle foreste. Con lui affrontiamo i temi politici che riguardano le aree interne: dai modelli replicabili di rigenerazione alle carenze di servizi, dalle direttive comunitarie al quadro legislativo, fino al tanto discusso bando borghi emanato dal Ministero della Cultura nel quadro del PNRR, di cui sono stati resi noti gli esiti.
Il tema dello spopolamento e dell’assenza di servizi di base costituisce il fulcro dei problemi delle aree interne appenniniche e montane. Per decenni la politica non ha fatto nulla per incentivare il ripopolamento, tuttavia ci sono stati progetti pilota come il caso di Ostana in Piemonte. Secondo lei può diventare un modello esportabile in altri territori e in che modo?
Anche nei territori dove ci sono stati negli ultimi decenni minori attenzioni delle istituzioni, che si sono concentrate nelle zone urbane, si approntano progetti affinché anche lì – ovvero nell’80% del paese che è rurale, montano, “interno” – si generino opportunità di sviluppo, si riorganizzino i servizi, si consenta alle persone di restare. La pandemia ha acceso dei riflettori su queste aree che per Uncem, e in particolare per il Piemonte, non sono certo una sorpresa. Se altri pezzi del nostro paese si sono accorti che esistiamo… beh, allora la politica deve agire di conseguenza. Le istituzioni centrali e regionali devono fare la loro parte. Ci sono certamente dei modelli. Ostana è uno di questi, ma non è il solo. Vi sono molti comuni che confermano una rigenerazione possibile, che parte dalle comunità. Non è solo una questione di soldi, o di progettualità. Risorse economiche negli ultimi anni ai comuni sono arrivate. Molto più che in passato. Ma i comuni piccoli sono sempre più fragili: il tessuto delle autonomie si è infragilito. Occorrono misure regionali e nazionali per rafforzare la cooperazione tra comuni, per spendere le risorse economiche che ci sono e che arriveranno. Per generare forze di territorio dove il campanile è sì importante, ma ancor di più lo diventa la capacità di lavorare insieme.
Attraversando i territori delle aree interne ci si accorge che le problematiche sono analoghe, ma le reti tra comuni distanti geograficamente tanto auspicate da Fabrizio Barca non funzionano. Come si può uscire da questa impasse?
Ci sono almeno tre livelli di azione, sui quali occorrerà imperniare lo strumento degli Stati generali della montagna e del recente disegno di legge sulla montagna, varato dal governo e ora all’esame del Parlamento. Il primo è di carattere europeo: dobbiamo puntare decisamente, nel periodo di programmazione 2021/2027, ad un fondo specifico che riconosca la peculiarità dei territori di montagna in attuazione dell’art. 220 del Trattato costituzionale UE. La nuova politica di coesione europea non può essere riformata senza mettere in campo, a fianco delle misure per le aree urbane, misure specifiche per le aree rurali e montane tese a favorire lo sviluppo sostenibile e a combattere lo spopolamento. Poi c’è il livello delle riforme nazionali, che è il secondo piano di lavoro: autonomia differenziata e riforma del testo unico degli enti locali, al fine di dare scheletro istituzionale adeguato alle politiche di coesione. E infine c’è l’attuazione delle misure di settore varate in questi anni, e ancora rimaste sulla carta: la legge sui piccoli comuni, il collegato ambientale (con la fondamentale misura della Strategia nazionale delle green communities), il testo unico in materia di foreste, oltre all’attuazione della Strategia nazionale delle aree interne e alla costituzione della sua federazione.
Con il PNRR il Ministero della Cultura ha varato il bando sui borghi storici che, fin dall’inizio, ha suscitato polemiche per una concezione vecchia della morfologia territoriale italiana. Di fatto l’Italia ha certamente dei borghi storici, con un nucleo medievale o antecedente, ma lo sviluppo edilizio incontrollato nel dopoguerra ha determinato una loro marginalizzazione all’interno di uno stesso comune, per cui isolare solo quelle aree è sintomo di miopia e di scarsa conoscenza del territorio…
Il bando borghi del MIC è rimasto aperto un paio di mesi e ha sollevato un’attenzione mediatica senza precedenti. Mai un bando era stato al centro di un tale dibattito. In termini giornalistici, si direbbe che questa attenzione è la notizia e non invece che venga speso oltre 1 miliardo di euro. La notizia è la corsa al bando, il fatto che la “linea a” e la “linea b” siano state prese di mira da migliaia di comuni italiani per accedere ai finanziamenti; che i borghi siano nuova sorgente del futuro, che migliaia di case possano essere riqualificate sono notizie nella notizia. La notizia è che il bando è una lotteria, come più volte ribadito da Uncem. E non abbiamo condiviso l’impostazione complessiva data dal Ministero. Una “linea a” con 21 fortunati borghi – scelti dalle regioni e ora ancora da valutare in via definitiva da parte della commissione ministeriale – che porteranno a casa 20 milioni ciascuno per attuare i progetti pilota, uno per regione. Ci sono città che hanno ritagliato ambiti da candidare, paesi molto piccoli, comuni già preoccupati su come spenderanno quei soldi, stante tutto il caos delle loro minime macchine organizzative. Ci sono molti progetti belli, interessanti, virtuosi che saranno importanti per il futuro (se nella rimodulazione, annunciata, prevista e ormai certa, del PNRR, si troveranno altre risorse per questi borghi, altri avranno speranza). Eppure è successo di tutto su questa assurda e poco visionaria misura che premia uno e scontenta tutti gli altri. “Un ingrato e mille scontenti”, si diceva per le nomine della prima Repubblica. Ventuno contro duemila, in questo caso. Non doveva essere così in un paese che, oggi come mai, deve generare coesione a partire dall’unità delle istituzioni. Solo facendoli lavorare insieme, in un territorio omogeneo, i comuni sono vincenti e forti. Non da soli e uno contro l’altro! Così si distrugge la rete dei comuni, s’ignorano le faticose connessioni esistenti, s’inabissa il lavoro dei sindaci che vincono i campanilismi per essere forti insieme. Non andava bypassato tutto questo! Tantopiù da un Ministero.
La narrazione delle aree interne durante la pandemia è stata quella di luoghi di villeggiatura dove passare il lockdown e fare lo smartworking. Ma il futuro non è lasciare la città per la montagna. Sono pochi quelli che optano per una scelta radicale soprattutto se non c’è una comunità attiva, senza connessione telefonica e internet, incentivi alle attività economiche (non solo agricole), servizi di base come scuola e presidi sanitari. Quali sono le opzioni per avviare un progetto di recupero strutturale delle aree interne del paese?
Vale, come risultato del bando borghi e nelle prossime componenti con avviso del PNRR, quello che nell’aprile 2020 Uncem scrisse all’architetto Stefano Boeri. Sui media erano appena apparsi i titoli e le grandi pagine sulla bellezza dei borghi, sulla rigenerazione, sulle migrazioni dai quartieri urbani verso i paesini. Ci eravamo permessi di ribadire che dovevamo evitare retorica e banalità. I paesi sono paesi, non borghi. Costruire comunità non è rifare un borgo. E così, la lettera aperta di allora è validissima oggi. Peraltro, il bando borghi è proprio nato sulla scia di una certa retorica fatta nel corso dei primi due lockdown, all’inizio della pandemia, quando tutti ci dicevano “che belli i borghi, che bella la montagna”, “come siete fortunati”, “compriamo casa in un borgo”, “ci sono le case a 1 euro, sono perfette”. Salvo poi accorgersi che “… eh, ma qui c’è la neve”, “manca l’asilo… e pure il pediatra!”, “vivere qui costa caro”, “i chilometri da fare in auto sono molti”, “manca la connessione e il telefono prende malissimo”, “poveretto chi vive nei borghi”. In mezzo a questo movimento del pendolo schizofrenico, ci siamo noi. Ci sono le comunità, con i sindaci e i comuni dei territori montani, rurali, interni del paese, alle prese con una retorica che vorremmo evitare di leggere in certi avvisi e nelle modalità di assegnazione dei finanziamenti. Perché di nuove Venezie non abbiamo bisogno e le campane di vetro in montagna sono difficili da portare. Non ci servono.
Immagine di copertina: scorcio del paese di Elva (Cuneo), selezionato come progetto pilota dalla Regione Piemonte nell’ambito della “linea a” del bando borghi del MIC, a cui dovrebbe andare un finanziamento pari a 20 milioni [fonte: progettoelva.it]
Architetto, critico di architettura, fotografo, dirige la webzine archphoto.it e la sua versione cartacea «archphoto2.0». Si è occupato di architettura radicale dal 2005 con libri e conferenze. Nel 2012 cura la mostra “Radical City” all’Archivio di Stato di Torino. Nel 2013, insieme ad Amit Wolf, vince il Grant della Graham Foundation per il progetto “Beyond Environment”. Nel 2015 vince la Autry Scholar Fellowship per la ricerca “Living the frontier” sulla frontiera storica americana. Nel 2017 è membro del comitato scientifico della mostra “Sottsass Oltre il design” allo CSAC di Parma. Nel 2019 cura la mostra “Paolo Soleri. From Torino to the desert”, per celebrare il centenario dell’architetto torinese, nell’ambito di Torino Stratosferica-Utopian Hours. Dal 2015 studia l’opera di Giancarlo De Carlo, celebrata nel libro “Giancarlo De Carlo: l’architetto di Urbino”