L’uomo di Alcatraz

L’uomo di Alcatraz

 

La percezione dello spazio e i danni provocati dalla detenzione al sistema cerebrale

 

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Robert Stroud trascorse 54 anni all’interno di diversi penitenziari americani, prima di morire nel 1963. Nel corso della sua detenzione divenne un famoso ornitologo, autore di saggi scientifici molto noti all’epoca. Sulla sua storia, John Frankenheimer realizzò il film The Birdman of Alcatraz, chiamando ad impersonarlo Burt Lancaster [immagine di copertina], che per quell’interpretazione vincerà la Coppa Volpi alla Biennale di Venezia. Stroud iniziò a studiare i canarini dopo la sua carcerazione: sarà questa interazione, con presenze vive all’interno della cella, forse, che gli permetterà di mantenere un equilibrio mentale, nonostante 42 anni d’isolamento. Sono ormai consolidate, infatti, le evidenze scientifiche che illustrano come il solitary confinement, ossia l’isolamento, danneggi il cervello umano.

Huda Akil è una nota neuroscienziata americana dell’Università del Michigan. Un suo amico, più di dieci anni fa, richiamò la sua attenzione sulle prigioni. All’inizio, Akil non era molto convinta di avere qualcosa da aggiungere, come neuroscienziata. Sarà Robert King, ex detenuto con 29 anni in isolamento sulle spalle, a fornirle l‘indizio che la convincerà. Rientrando verso l’albergo, dal ristorante dove erano stati introdotti quella sera, King confessò di non essere in grado d’indicare la strada. L’isolamento aveva cancellato il suo senso dell’orientamento. La neuroscienziata, come riferirà più tardi, individuò in quell’istante la chiave: King aveva radicalmente mutato il suo rapporto con lo spazio, e quindi era l’ippocampo l’area d’indagine, una piccola parte del cervello che svolge, però, un ruolo cruciale nella nostra vita.

I coniugi May-Britt e Edvard Moser, insieme con John O’Keefe, nel 2014, vengono insigniti del Nobel per la medicina per aver scoperto come l’ippocampo contiene il nostro GPS naturale. In questo cavalluccio marino di pochi centimetri, sono contenuti milioni di neuroni che si attivano quando passiamo in determinati punti dello spazio, quando siamo sui bordi dello stesso, all’interno di una mappa ben orientata che usa delle griglie esagonali, costruite nella corteccia entorinale, adiacente all’ippocampo, nei cui vertici sono collocate le place cells. In questo nucleo si costruiscono tutte le mappe degli spazi che ospitano le nostre vite. L’amigdala, che regola parte delle emozioni, va a braccetto con l’ippocampo, si potrebbe dire che lo cavalca. Il tutto è infine ben integrato con la corteccia, la parte evolutivamente più giovane del cervello, in particolare con quella sensorimotoria, che pilota il nostro movimento corporeo nello spazio. Ora pensiamo che dalla fase dell’Homo erectus sono passati due milioni di anni, mentre abbiamo messo su casa, cioè ci siamo fermati e costruito lo spazio artificiale, l’architettura, solo da circa undicimila anni: l’altro giorno, in termini evolutivi. La nostra struttura cerebrale è fatta per ricercare, per essere sempre in esplorazione. Ancor oggi, come durante l’evoluzione, abbiamo bisogno di novità come l’aria che respiriamo.

Se lo spazio che forma il nostro contesto di vita viene deprivato e svuotato l’ippocampo si spegne, non serve più. Se a questo aggiungiamo che è la relazione con un essere umano, altro da noi, con tutta probabilità è costitutiva per la mente e la coscienza, è facilmente intuibile come la cella, e la solitudine, danneggi irreparabilmente l’ippocampo. Alcune ricerche post mortem, su corpi di detenuti in isolamento hanno rilevato, infatti, come la dimensione dell’ippocampo si fosse ridotta della metà. Le sinapsi che collegano i neuroni crollano, e il tessuto di quest’area finisce per assomigliare ad un albero senza foglie e spoglio. La plasticità cerebrale funziona in entrambe le direzioni: può accrescere come ridurre le capacità cognitive e la nostra empatia con altri esseri. Questo l’esito al quale giunsero le ricerche di Akil.

L’isolamento è una condizione limite dei sistemi penitenziari: in Italia, non sono molti i reclusi a farne esperienza, è vero. Ciò non di meno, assunta come baseline, o punto limite di paragone, è molto utile: infatti, è ora chiaro quali danni irreparabili alla socialità, alle capacità cognitive ed emotive, alla memoria, induca in un cervello umano. Questo, di converso, permette di definire fattori di contrasto quegli elementi o condizioni che allontanano il detenuto da tale condizione di rischio.

Tra edifici a sorveglianza attenuata, per persone in attesa di giudizio, e istituti di sicurezza per soggetti con condanna definitiva, è il tempo in cella a variare: nel primo, la cella s’incontra solo alla sera per dormire, mentre nel secondo la si abbandona solo in base all’adesione individuale ad attività comuni, se previsto. Ogni sede di reclusione è una storia a sé stante, perché l’affollamento e le scelte dei direttori contano molto. Il fattore principe di contrasto è, quindi, la variazione percettiva, che la permanenza esterna al cubicolo favorisce. Altri elementi di contrasto interni alla cella sono la privacy, che una singola permette, la dotazione di servizi igienici, luce naturale e spazio in quantità adeguata, una proiezione visiva sull’esterno, attraverso una finestra, mobili da riposizionare, varianza cromatica e dei materiali. All’esterno della cella possiamo comprendere tra i fattori di contrasto gli stessi corridoi, con sezioni, lunghezze e forme adeguate, la presenza di aule scolastiche, biblioteche, laboratori, spazi per lo sport e per gli incontri, e le aree aperte. La possibilità d’incontrare nuovi spazi da mappare, nel corso della giornata, percependo la variazione luminosa naturale, e il mutare delle stagioni, può con una buona articolazione di luoghi da esperire, mitigare o ridurre gli inevitabili danni al sistema cerebrale prodotti dalla detenzione. Come questi fattori incidano positivamente non è noto. Non esistono al momento ricerche che ne misurino il grado di protezione.

Forse Stroud aveva intuito il potere dei suoi canarini. Il movimento vitale di quelle minuscole presenze, come bonsai, disegnando nello spazio ritmi in miniatura nella fissità sterile della cella, potevano tenere in vita il suo ippocampo, innescando immaginarie esplorazioni di spazi esterni.

Autore

  • Davide Ruzzon

    Architetto, ha fondato e dirige NAAD Neuroscience Applied to Architectural Design, primo Master internazionale nato sullo stesso tema, all’Università Iuav di Venezia. A Milano ha fondato TUNED, ufficio dedicato all’applicazione delle neuroscienze al progetto architettonico che vanta interventi nel settore dell’housing sociale, delle residenze per anziani, ospedali, aeroporti, logistica, scuole, uffici a co-fondato la nuova rivista «Intertwining», sul rapporto tra scienza, cultura umanistica e architettura, edita da Mimesis International. Ha pubblicato “L’architettura delle differenze” (2013) e “Tuned Architecture” (con Vittorio Gallese, 2016), oltre a saggi e articoli in varie riviste d’architettura. Sempre presso Mimesis è stato recentemente pubblicato il volume “Tuning. Architecture with Humans”

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