L’università sarà più credibile e attendibile

L’università sarà più credibile e attendibile

 

Il rettore del Politecnico di Milano spiega come la crisi migliorerà didattica e ricerca

 

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Sono tanti in questi giorni i dibattiti sul futuro dell’università. Su come sarà il post Covid. Molte le ipotesi e poche le certezze. Quello che sappiamo, finora, è che questa emergenza ha minato parecchie delle nostre convinzioni, non solo come docenti universitari ma come individui. Ha messo in discussione ruoli e abitudini. Ha portato ingenti perdite ma, allo stesso tempo, ha aperto nuove opportunità. Pensare di ristabilire la normalità, per come la conoscevamo prima, non è certamente l’obiettivo a cui possiamo e dobbiamo tendere. Al contrario, è questa l’occasione per fare un passo in avanti, per definire nuovi orizzonti e cogliere nuove opportunità.

L’articolo di Carlo Olmo fa certamente riflettere. Rimette in discussione il senso della didattica e il ruolo culturale dell’istituzione universitaria, con i suoi vizi e le sue virtù, così come l’abbiamo conosciuta finora. Direi però che, di fronte all’emergenza, una delle più drammatiche per questo Paese dal secondo dopoguerra in poi, è quasi scontato dire che niente sarà più come prima. Dobbiamo quindi provare ad applicare alla realtà un nuovo filtro, abbandonando vecchi schemi e paradigmi consumati.

In generale, il sistema universitario ha risposto bene all’emergenza. Il 96% degli insegnamenti è erogato via web. Si sono svolte 27.000 lauree e tenuti 68.000 esami. Siamo riusciti, primi in Europa, a mettere in atto misure fondamentali per garantire la sicurezza dei nostri ragazzi e la possibilità di svolgere regolarmente le loro attività. Il che significa per alcuni chiudere un ciclo di studi e affacciarsi al mondo del lavoro, per altri proseguire senza intoppi. Diciamo che il mondo universitario si è mostrato molto meno rigido e più incline al cambiamento e alla flessibilità di quanto raccontino pregiudizi oramai logori. Al Politecnico di Milano in due settimane abbiamo spostato il 100% dell’offerta formativa online, coinvolgendo 45.000 studenti e 1.400 docenti. Uno sforzo non da poco, che siamo riusciti ad attuare anche grazie a competenze maturate prima dell’emergenza. Già prima dell’esplosione di questa crisi, contavamo oltre 50 MOOC (Massive Open Online Courses: i corsi aperti, a distanza). E già prima di allora un docente su tre era formato a nuovi sistemi di blended e flipped classroom. A testimonianza che guardare avanti è sempre una buona pratica.

La domanda che dobbiamo porci ora è come potremo far convivere i nuovi sistemi della didattica a distanza con la presenza in classe, quando questa verrà ristabilita. Voglio chiarire subito un punto: digitale non significa virtuale. L’insegnamento e l’apprendimento da remoto, per quanto possano risultare efficaci su molti fronti, non potranno mai sostituire la presenza fisica, il rapporto umano tra docente e studente. Non potranno cancellare l’emozione di un gesto inaspettato o il dialogo, che non è fatto solo di parole, ma anche di linguaggio del corpo, di espressioni, dell’intuizione che nasce da un incrocio di sguardi.

Allora, ciò su cui dobbiamo riflettere è come sfruttare questi sistemi per migliorare la nostra presenza in aula. Sono convinto che essi ci permetteranno di liberare tempo ed energia per cambiare il nostro modo di fare lezione. Stabilito che possiamo demandare nozioni e regole all’apprendimento a distanza, allora rimarrebbe più tempo per un lavoro di qualità in classe, per una maggiore interazione, per attività di gruppo, per l’elaborazione di un pensiero critico che nasce dal confronto. Credo che come docenti usciremo da questa esperienza con un bagaglio di conoscenze nuove. Non di tipo tecnico. Non perché sapremo usare meglio piattaforme e strumenti che prima ignoravamo o che, nella migliore delle ipotesi, sfruttavamo male o in piccolissima parte. Non perché saremo più efficienti o rapidi nell’erogazione, ma perché avremo rimosso alcune barriere cognitive e reinterpretato alcuni valori fondanti dell’insegnamento.

Non dimentichiamo poi la ricerca. Oggi nelle università si certificano mascherine, si produce gel igienizzante, si stampano valvole in 3d per i respiratori, si studiano vaccini e cure alternative. È la ricerca a rendere il nostro futuro “meno inevitabile”. È la ricerca a permetterci, in contesti sociali e politici dettati dal populismo, di ridare valore al nostro lavoro, che è quello di mettere il sapere al sevizio della collettività e di uno sviluppo realmente sostenibile. Per questo credo che l’università non solo ne uscirà migliore, ma che la sua credibilità e la sua attendibilità saranno le chiavi di volta per riprogettare il futuro.

Autore

  • Ferruccio Resta

    Ingegnere e professore ordinario di meccanica applicata, è rettore del Politecnico di Milano dal 2017 e, dal febbraio 2020, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane

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