L’Italia e la conservazione “difficile”
Sulle ragioni della tutela spesso prevalgono altri interessi
Published 10 giugno 2021 – © riproduzione riservata
Dall’intenso dibattito sul destino degli stadi di calcio in Italia, che ha recentemente coinvolto ampi settori dell’opinione pubblica, emerge un presupposto che ne motiva i toni polemici e conflittuali: in effetti, si stenta ad attribuire agli stadi un sistema di valori storicamente riconosciuti e, dunque, a individuare in essi un tema meritevole di una riflessione sul versante della conservazione.
La questione non è semplice, non potendosi limitare a un atteggiamento conservativo a oltranza. Gli stadi sono strutture pubbliche, socialmente assai rilevanti, snodi d’interessi – anche economici a grande scala – che ruotano intorno al calcio e all’indotto che produce. Il loro adeguamento, quindi, in termini di funzionalità e sicurezza, si pone come necessità prevalente rispetto agli stessi sacrosanti obiettivi di conservazione; e a questa (presunta) verità ci si è appellati anche nel recente decreto “sblocca-stadi”. Infatti l’articolo 55-bis, inserito tra le pieghe del cosiddetto Decreto sicurezza, stabilisce per via legislativa la prevalenza di altri interessi, tra i quali la gestione economica, su quello relativo alla tutela del patrimonio culturale, nonostante il rilievo costituzionale di quest’ultimo (articolo 9).
L’organo di tutela è relegato a indicare solo gli “elementi strutturali, architettonici o visuali di cui sia strettamente necessaria a fini testimoniali la conservazione o la riproduzione anche in forme e dimensioni diverse da quella originaria”. E ciò, si badi, solo per gli impianti sportivi, come se si potesse parcellizzare il patrimonio architettonico italiano andando per tipologie. Una norma che appare anticostituzionale, scritta come se fosse un provvedimento amministrativo piuttosto che una legge, pensando agli interventi, all’epoca già preannunciati, sullo stadio Artemio Franchi. Una norma che contraddice lo spirito stesso dell’intero Codice dei Beni culturali e del paesaggio e che ha inferto il colpo di grazia alla sopravvivenza degli stadi.
Un patrimonio del Novecento
L’assenza di un approccio conservativo rappresenta, in realtà, una condizione comune a larga parte del patrimonio del Novecento che, in virtù dei suoi caratteri funzionali, risulta inevitabilmente sottoposto a un continuo processo di aggiornamento per rispondere a mutate esigenze d’uso come alle modifiche della normativa o – per gli stadi – di allineamento agli standard internazionali; per cui, sollevare eccezioni di tutela e promuovere interventi di restauro è parso frutto di uno degli eccessi della patrimonializzazione.
Se si volesse sviluppare una piccola indagine per individuare quanti e quali stadi di calcio trovino spazio tra le pagine dei libri di storia dell’architettura, o almeno dei manuali generali, si dovrebbe prendere atto di un numero molto limitato. I pochi casi fortunati si legano a firme eccellenti: da Giulio Ulisse Arata a Bologna a Pier Luigi Nervi a Firenze e a Roma, da Luigi Piccinato a Pescara a Renzo Piano a Bari, per citare i più noti. Sicché, facendo prevalere anche in questo campo un criterio di autorialità, l’approccio conservativo risulta fortemente circoscritto. Questa limitazione non semplifica, tuttavia, le cose. Come conciliare, infatti, sicurezza, comfort, adeguati livelli prestazionali con il rispetto del dato testimoniale?
Quando non basta la dichiarazione di notevole interesse
Tanto più che neppure la dichiarazione di notevole interesse mette al sicuro gli impianti da interventi aggressivi e deleteri.
Lo stadio di Pescara, ad esempio, in vigenza del vincolo ministeriale, è stato sfigurato da strutture in legno lamellare del tutto improprie. Per lo stadio Flaminio, in stato di abbandono da decenni, non si vede ancora un definito programma di recupero e restauro, nonostante il recente concorso di progettazione e il Piano di conservazione realizzato da un gruppo di studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma, con la Pier Luigi Nervi Project Association e DO.CO.MO.MO. Italia – APS. Lo stadio Artemio Franchi, a sua volta, rischia pesanti interventi di modifica, se non una completa ristrutturazione (proprio in quesi giorni è stato presentato il concorso inernazionale bandito dal Comune di Firenze con l’Ordine degli architetti). Alcuni stadi, come il Maradona, ex San Paolo di Napoli, sfigurati dagli interventi di Italia ’90, non sono stati vincolati per non privare il Comune, proprietario della struttura, della possibilità di venderlo, in caso di necessità di bilancio.
Dunque, gli attuali strumenti legislativi di tutela non affrancano queste opere dai rischi di snaturamento o, addirittura, di demolizione, di cui fu oggetto, ad esempio, il Velodromo Olimpico di Roma, di Cesare Ligini, Dagoberto Ortensi e Silvano Ricci (1960), fatto implodere nel 2008.
Il nodo del cemento armato nella tutela
Si aggiunga che il cemento armato è rimasto, finora, estraneo alle norme e all’attenzione degli organismi di tutela. L’Istituto Centrale del Restauro considera il calcestruzzo essenzialmente per i problemi di restauro delle superfici, non delle strutture; e il cosiddetto miglioramento introdotto dalle Linee guida del Ministero è ammesso in luogo dell’adeguamento antisismico soltanto per le strutture in muratura di edifici sottoposti a vincolo, non per quelle in cemento armato. Per non parlare di altri aspetti relativi ai requisiti di conformità che, spesso, sono completamente fraintesi: sicché, per rispettare la lettera della norma, si apportano modifiche del tutto improprie, senza perseguire soluzioni equivalenti che ottengano lo stesso risultato rispettando l’organismo esistente.
Italia: 161 stadi edificati dal 1910
Il problema si complica se si allarga doverosamente lo sguardo all’insieme degli stadi di calcio presenti in Italia. Da una prima mappatura promossa dal Comitato per il Patrimonio del XX secolo di Icomos Italia, sono risultati 161 stadi edificati dal 1910 a oggi, la maggioranza dei quali episodi meno noti, figli di un dio minore anche nei confronti dell’obbligo di conservazione.
Eppure, si tratta di architetture di notevole impegno, anzitutto dimensionale, di grande impatto urbanistico e paesaggistico, al punto da condizionare, nel bene e nel male, gli sviluppi dei contesti che le ospitano e costituire autentici landmark nel panorama urbano, luoghi di sperimentazione di avanzate soluzioni strutturali (si pensi alle tribune e alle ardite pensiline a sbalzo), e non privi di ambizioni monumentali, sebbene diversamente interpretate, dalla retorica delle facciate-schermo negli anni del regime all’esibizione tecnologica. Senza considerare i valori immateriali di cui gli stadi sono veicolo, in quanto luoghi privilegiati di sociabilità e di emozioni condivise. Poche architetture possono vantare un analogo coinvolgimento all’interno delle comunità e diventarne simbolo identificativo, sicché il valore testimoniale, con la correlata dichiarazione d’interesse culturale, si estende a volte anche a manufatti di non particolare pregio architettonico, ma che conservano la memoria di comportamenti, consuetudini, autentici rituali collettivi.
Certamente, molti di essi non possono più sostenere la funzione alla quale erano stati destinati, così come sono mutati i contesti, rendendo critici i servizi e i trasporti e soffocando in qualche caso le strutture, raggiunte dallo sviluppo edilizio. Molti stadi hanno anche superato il grado di trasformabilità compatibile, da cui la difficile scelta: demolizione e ricostruzione in dimensioni e forme più aggiornate, o realizzazione di un nuovo impianto in un nuovo contesto, aprendo la questione del riuso delle strutture superstiti.
Nell’individuare nuove destinazioni che ne possano giustificare la conservazione (e i relativi costi), magari sempre in ambito sportivo, o con funzioni integrate, gioca a favore quella condizione di centralità nel contesto urbano che ne impedisce l’ampliamento, ma che le candida ad attrezzature a livello cittadino, oltre al ruolo di spazi aperti dei grandi vuoti urbani, di cui l’emergenza pandemica ha fatto emergere tutto il valore. Non un ostacolo, dunque, ma una risorsa tramessa dal passato, di cui ribaltare i limiti per tradurli in fulcri di rigenerazione urbana e sociale in un’ottica di città resiliente e sostenibile.
Per gli stadi, insomma, si tratta di una conservazione difficile. Non solo per i problemi conseguenti all’invecchiamento e degrado delle strutture o all’obsolescenza degli impianti, ma per le scelte che solleva in seno alle comunità. Scelte difficili, appunto, rispetto alle quali occorre comunque schierarsi.

