L’informale nelle Biennali: sguardi a confronto
Una rassegna delle manifestazioni che si sono poste negli ultimi anni come principale vettore di scambio trasversale con il dibattito disciplinare
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L’attenzione crescente nei campi dell’urbanistica e dell’architettura sviluppatasi negli ultimi anni nei confronti dell’informale ha contribuito a delineare i contorni di un fenomeno mainstream che interseca trasversalmente il dibattito disciplinare. Parallelamente, è possibile considerare le Biennali di architettura come i vettori principali di scambio di questo dibattito. Diffusi a ritmi esponenziali durante gli ultimi decenni, tali eventi cercano oggi di esulare dalla semplice “vetrina” di oggetti, esplorando questioni più ampie e ponendosi come ambiti di sperimentazione, piattaforme critiche in cui la narrazione e la divulgazione tipiche di questo modello si relazionano con attività di ricerca e temi di riflessione radicati nelle realtà urbane e sociali contemporanee. Attraverso la commistione di più discipline, nelle Biennali contemporanee la costruzione della narrazione della realtà interseca nuove riflessioni su ciò che non c’è ancora o che è in fieri, arrivando a suggerire ipotetici scenari di trasformazione futura. In questa prospettiva sperimentale, attraverso quali declinazioni l’informale – strettamente legato al concetto di ultra-local – s’inserisce nel contenitore globalizzato delle mostre ed eventi internazionali?
Alcune edizioni delle Biennali di architettura e urbanistica contemporanee hanno costituito l’occasione per tracciare alcune linee di osservazione nei confronti del tema: se da una parte infatti le istituzioni tendono a demonizzare l’informalità per legittimarne strategicamente l’eradicazione, e all’estremo opposto le narrazioni bottom-up tendono a esaltarne sostenibilità e inclusività sociale, la mostra si pone come territorio neutrale ed in una certa misura analitico, che ne rielabora modalità descrittive e categorie interpretative in una dimensione “altra”.
Alcuni casi-studio
Nel 2006, la Biennale di Venezia “City. Architecture and Society” di Ricky Burdett riconosce e cristallizza un cambiamento paradigmatico già in atto negli studi urbani e nella geografia, considerando la città informale non come alterità, bensì come parte integrante della città globalizzata. Attraverso la comparazione di dati e misure (densità, disoccupazione, età anagrafica, ecc.), la città informale diventa un terreno di osservazione reso commensurabile alle altre forme di urbanizzazione.
Con il simile intento di superare categorie geografiche postcoloniali, ma da una prospettiva radicalmente diversa, la International Architecture Biennale Rotterdam nell’edizione del 2007, “Power: producing the contemporary city”, indaga la città informale come una fra le forme di città derivanti da decenni di applicazione di politiche neoliberiste alla scala globale: insieme alle “Capital Cities”, “Sectacle Cities”, “Corporate Cities”, le due sezioni delle “Informal Cities” e delle “Hidden Cities” si contendono la condizione urbana informale, nel primo caso intesa come potenziale da sviluppare in termini di flessibilità, intraprendenza, partecipazione, nel secondo caso intesa come costante precarietà, lavoro sommerso e fragilità sociale.
Nel Biennale di Venezia del 2012, l’informalità urbana fa il suo ingresso definitivo nel mainstream disciplinare ricevendo il Leone d’oro per il miglior progetto, accordato all’installazione “Gran Horizonte” di Urban Think-Tank; sintomo di una visibilità in crescendo che, come suggerito irriverentemente da alcuni osservatori, manda in overload mediatico la “Floating School” di Kunlé Adeyemi, con lo spettacolare inabissamento del progetto originale a Makoko proprio durante la permanenza del modello in scala reale alla Biennale di Venezia del 2016.
Nel 2015, con la Bi-City, Biennale of Urbanism\Architecture di Shenzhen, “Re-living the City”, la definizione di città radicale concettualizzata, di nuovo, da Urban Think-Tank, incalza uno spostamento nella prospettiva di osservazione, in cui la categoria “informale” si apre a modalità di azione che superano i confini dello scenario spaziale di osservazione. L’attenzione non è più rivolta all’informalità come condizione urbana osservabile, bensì come modo di azione progettuale.
In questo quadro, la mostra “Across Chinese Cities” all’interno della Biennale di Venezia del 2014 racconta la trasformazione dello storico quartiere di Dashilar a Pechino e dei suoi hutong attraverso l’operazione culturale e sperimentale della Beijing Design Week, nella quale si riconosce la possibilità di condurre, all’interno di contesti informali, operazioni a vari gradi ‘istituzionalizzazione e visibilità, contestualizzando quello che i curatori definiscono adaptive urbanism. Un secondo momento è costituito da alcune installazioni presenti all’Arsenale in occasione della successiva edizione della Biennale di Venezia (2016), “Reporting from the Front”, curata da Alejandro Aravena, nella quale viene chiesto ai partecipanti di ampliare i confini dell’azione di progetto, ricorrendo a una serie di categorie che includono l’informalità urbana; interessante l’operazione di scomposizione proposta nuovamente su Dashilar: una lettura per frammenti, in cui vengono raccontati oggetti architettonici alla micro-scala che rappresentano un modo di “fare città” per mezzo di piccoli innesti incrementali.
In modo analogo, la UABB Bi-City, Biennale of Urbanism\Architecture Shenzhen Hong Kong 2017, “Cities, Grow in Difference”, presenta il contesto informale dei villaggi urbani di Shenzhen come oggetto di osservazione e teatro di azione fisica delle trasformazioni architettoniche realizzate in occasione dell’evento stesso.
Lo specchio di un mondo spaccato in due
Se da una parte l’informalità urbana ha finalmente conquistato un posto rilevante all’interno del dibattito disciplinare, appare tuttavia chiaro che essa ancora trascina il peso dell’eredità di un mondo polarizzato, spaccato in due da un equatore politico; è possibile che, come sostengono da tempo autori come Rahul Mehrotra o Matias Echanove e Rahul Srivastava, l’informalità come categoria abbia esaurito la propria utilità. Se è così, lo strumento di rappresentazione delle Biennali ci mostra tuttavia come il dibattito su cosa possa sostituirla resti aperto.
Valeria Federighi: ricercatrice presso il Politecnico di Torino, dove ha conseguito il dottorato in Architettura e progettazione edilizia con la tesi Informal Stance: Representations of architectural design and informal settlements (ORO Editions, 2018). Come parte del gruppo di ricerca China Room, partecipa alla curatela della Biennale di Shenzhen. Fa parte della redazione della rivista «Ardeth – Architectural Design Theory».
Silvia Lanteri: architetta e dottoranda di ricerca al Politecnico di Torino, si occupa di processi di rigenerazione urbana e riattivazione temporanea di spazi, a cavallo tra la Cina e l’Italia, con un’attenzione particolare al tema della rappresentazione come strumento d’indagine. Collabora come teaching assistant presso i Politecnici di Torino e Milano, dove prende parte a numerose attività integrate di ricerca e progetto.
Monica Naso: architetta e dottoranda di ricerca presso il Politecnico di Torino, membro del gruppo di ricerca China Room, ha svolto studi ed esperienze professionali in Italia, Cina e Francia. La sua attività investiga le dinamiche di “cultural consumption” e spettacolarizzazione dello spazio urbano, con particolare attenzione al contesto asiatico.