L’inarrestabile onda di cemento: una “nuova” Bologna in un anno
I dati del report 2019 sistema Ispra-Snpa sul consumo di suolo: in media, 14 ettari al giorno
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Lo scioglimento dei ghiacciai del Monte Bianco e il surriscaldamento degli oceani con il rischio dell’innalzamento inedito del livello dei mari sono solo gli ultimi episodi, dopo gli incendi dell’Amazzonia e della Siberia delle scorse settimane, di una saga molto poco fantascientifica che non prevede, ad oggi, alcun lieto fine. Tali fenomeni, come le ultime intergenerazionali e partecipatissime mobilitazioni mondiali contro gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, organizzate in oltre 160 Paesi del mondo e ispirate dal protagonismo dell’attivista svedese Greta Thunberg, nonché il nuovo vertice Onu a New York convocato in vista della prossima Conferenza sul Clima, ce lo stanno dicendo con estrema chiarezza: non abbiamo più tempo da perdere. Dobbiamo salvare il nostro pianeta.
A corroborare questa tesi, almeno nel nostro Paese, i dati del report 2019 di sistema Ispra-Snpa (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale – Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente) sul consumo di suolo. Nell’ultimo anno, alla velocità di 2 mq al secondo e alla media di 14 ettari al giorno, in un’Italia a forte decremento demografico sono stati impermeabilizzati altri 51 kmq di suolo naturale e agricolo. A voler rappresentare questi numeri è come se, nell’ultimo anno, fosse stata coperta dal cemento una superficie più ampia dell’intero territorio di Bologna. Il nostro Paese, con il 7,6% della superficie nazionale impermeabilizzata, è uno dei primi in Europa per consumo di suolo: nel continente, infatti, la media è del 4,2%.
Sul podio delle regioni che hanno registrato i maggiori incrementi di superfici che hanno ridotto la loro naturalità troviamo Veneto, Lombardia e Puglia, rispettivamente, con 923, 633 e 425 ettari trasformati perché destinati a nuove infrastrutture, poli logistici, strutture commerciali o volumetrie residenziali. A livello comunale, invece, Roma – con 75 ettari artificializzati – è il primo ente locale per consumo di suolo, seguito (tra i comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti) da Verona (33 ettari), L’Aquila (29), Olbia (25), Foggia (23), Alessandria (21), Venezia (19) e Bari (18).
La dimensione urbana, nel rapporto Ispra, viene particolarmente indagata perché proprio nelle città è avvenuto, nell’ultimo anno, quasi il 50% dei nuovi cambiamenti e perché, per l’omogenea perdita di popolazione, ogni abitante ha in “carico” oltre 380 mq di superfici artificiali, quasi 2 mq in più ogni anno: nel solo 2018, per ogni abitante in meno, abbiamo utilizzato per nuove costruzioni 456 mq. Questi dati, già allarmanti, ne trascinano un altro: nonostante gli annunci da parte di amministratori e imprenditori di voler rinaturalizzare le nostre città attraverso nuove piantumazioni, oggi le nostre città hanno sempre meno aree verdi, con 24 mq in meno per ogni ettaro di verde. La loro diminuzione, oltre a far crescere l’intensità di fenomeni ambientalmente dannosi come le isole di calore o le sempre più frequenti precipitazioni, determina, in modo direttamente proporzionale, una significativa riduzione dei servizi ecosistemici. Con questa espressione s’intendono i benefici multipli prodotti dalla natura ed è fondamentale valutarli rigorosamente nell’era geologica che stiamo attraversando detta “antropocene”. In Italia, quindi, la riduzione dei servizi ecosistemici, secondo le rilevazioni dell’Ispra, sta producendo danni economici pari a 2-3 miliardi di euro all’anno.
Le città, ad oggi responsabili di almeno il 70% dei gas serra globali, rischiano di ospitare, rivelano le Nazioni Unite, quasi 10 miliardi di persone entro il 2050 e di veder crescere i propri fabbisogni energetici e le proprie emissioni climalteranti in atmosfera. Un simile scenario, in assenza di una radicale conversione ecologica dei nostri modelli di produzione e consumo, anche per l’aumento della temperatura media globale oltre i 2° entro la fine del secolo, provocherebbe l’epifania di città al limite della vivibilità. Dopo la Conferenza sul clima di Parigi (2015), e nell’urgenza di definire agende urbane a livello nazionale e locale, furono introdotti i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile attraverso i quali rileggere la contemporaneità con nuove visioni, per consegnare un futuro accogliente e resiliente alle prossime generazioni.
Servirebbe urgentemente, dunque, non solo una nuova legge nazionale sul consumo di suolo, in grado di fare sintesi delle numerose proposte legislative oggi depositate in Parlamento, alla quale ancorare armonicamente il paradigma di una rigenerazione urbana innervata d’innovazione sociale, ma anche una nuova coraggiosa ristrutturazione di tutta l’architettura normativa del governo del territorio, oggi obsoleta, che contribuisca a curare l’attuale “estetica del degrado”, ancora più paradossale in un Paese che è stato conosciuto nel mondo come il “Bel Paese”. Il futuro sta bussando alle nostre porte, mai come in passato. È arrivato il momento di accoglierlo, con entusiasmo e fiducia, perché la speranza incarnata dai milioni di giovani di Fridays for Future non sia più tradita.
Ingegnere edile-architetto e urbanista, dopo una tesi di laurea in Gestione urbana al Politecnico di Bari e un master di II livello all’Università Politecnica delle Marche sulla dimensione multirischio del governo del territorio, è assegnista di ricerca Iuss Pavia – Ispra. Si occupa da molti anni, anche in qualità di giornalista pubblicista ambientale, di consumo di suolo e rigenerazione urbana, di economia circolare e di politiche urbane sostenibili. Per il suo impegno sociale e ambientale, negli ultimi due anni, ha ricevuto, rispettivamente, il premio Livatino-Saetta-Costa e il premio Sentinella del Creato