The Africa Institute, Sharjah, UAE (Adjaye Associates)

Learning from Africa

Learning from Africa

Le risorse e la crescita demografica ed economica la rendono il continente del futuro, con una realtà che impatta sui progetti al centro della prossima Biennale di Architettura

 

Published 19 aprile 2023 – © riproduzione riservata

Esiste un’identità dell’architettura africana? Spesso mi sento rivolgere questa domanda. Non possiamo ancora dare una risposta. Serve un ulteriore percorso di studio e di ricerca”. La (attesa) rivoluzione targata Lesley Lokko, architetta di origine e cittadinanza ghanese, prima curatrice africana della Biennale di Architettura di Venezia, è anche (il tempo dirà se soprattutto) un faro acceso sul carattere e sulle prospettive di un continente intero. Grande, complesso, multiforme, sicuramente contraddittorio. Sempre decisamente ai margini delle narrazioni architettoniche. Forse non più, da oggi.

Ma oggi il mondo è pronto ad ascoltare una narrazione diversa”: Lokko ne è convinta. A Venezia porterà moltissimi progettisti africani, la metà di chi esporrà i propri lavori tra Arsenale e Giardini. Ci sono i nomi della cosiddetta “diaspora” (professionisti con una carriera nata dopo una necessaria emigrazione verso l’Occidente o i paesi mediorientali), almeno un paio di grandi nomi (su tutti David Adjaye e Diébédo Francis Kéré), ma anche giovani architetti che in Africa sono nati, vivono e lavorano. E sperimentano. Perché è questo l’aspetto che più emerge nei tanti commenti positivi registrati dopo la presentazione del programma della Biennale. Nei paesi africani, in condizioni così diverse da quelle occidentali, si progetta e si costruisce con metodi e processi alternativi. Raccontarli in una grande mostra produce un laboratorio d’idee ed esperienze proiettate al futuro. Un recente articolo ha riportato i giudizi e le attese di due osservatori del mondo africano: Francesca Giommi (ricercatrice in letterature e culture dei paesi di lingua inglese, scrittrice, saggista, africanista, collaboratrice de “Il Manifesto”) e Matias Mesquita (presidente della Casa de Angola in Italia, direttore del Kibaka Africa Festival del Cinema africano a Firenze).

L’Africa, nonostante i malanni cronici, ha tutte le carte in regola per diventare il continente del futuro, con una rapida crescita demografica ed economica e un ingente patrimonio di risorse umane e naturali ancora da esplorare e impiegare al meglio (e possibilmente non più solo sfruttare dall’esterno)”, dice Giommi. “Il primo aspetto che mi piace di questa Biennale”, aggiunge Mesquita, “è che si pone in contrasto verso il cambiamento climatico perché dagli anni sessanta a oggi in Africa si costruisce con tanto cemento armato. Abbiamo palazzi in vetro e cemento armato, si usa tanto l’aria condizionata in uno stile molto occidentale. Avendo invitato architetti africani la Biennale pone la questione sul modo di costruire ambienti con un minor impatto ambientale, senza tanto cemento armato e vetro, e lancia una sfida al mondo con gli studi di giovani architetti. Penso che questa mostra possa aiutarci a capire”.

Le due parole-slogan con prefisso “de-” messe in campo da Lokko per raccontare l’approccio descrivono efficacemente una realtà (sociale ed economica) che impatta inevitabilmente sui progetti. De-carbonizzazione significa fare i conti con cambiamenti climatici che qui più che altrove provocano effetti devastanti. Su tutti la terribile siccità che sta investendo i Paesi del Corno d’Africa. Che produce luoghi e spazi inabitabili e alimenta flussi migratori consistenti e dalle drammatiche conseguenze sociali. Conseguenze a cui si dovrebbe opporre un percorso di de-colonizzazione.

Perché l’Africa ancora oggi (pur in maniera diversa rispetto al passato) si confronta con forme d’influenza e sottomissione straniera. È un colonialismo nuovo, uno sfruttamento di risorse che si sviluppa generalmente sottotraccia salvo esplodere, come in questi giorni in Sudan, in conflitti armati e guerre civili (peraltro endemiche). Ma, su un piano evidentemente diverso, assistiamo anche a un colonialismo culturale ed economico. Che si sostanzia, nelle professioni del progetto e nel mercato delle costruzioni, in ibridazioni e processi spesso contraddittori.

 

Demas Nwoko, il leone nigeriano

Far conoscere realtà poco note, marginali rispetto a quella che consideriamo la storia dell’architettura. Se questa è la vocazione della prossima Biennale, l’assegnazione del Leone d’Oro alla carriera è assolutamente coerente nella sorpresa che ha generato. Lo ha vinto (succedendo a un mostro sacro come Rafael Moneo, premiato nel 2021) Demas Nwoko, 88enne artista poliedrico, designer e architetto nigeriano. Un profilo, oltre che pressoché sconosciuto in Occidente, portatore di una visione profondamente africana dell’architettura, sicuramente non convenzionale. In cui la professione del progetto architettonico pare essere una delle tante componenti di un’esperienza artistica e professionale intensa e molto ampia (ecco un racconto).

L’estetica dei suoi edifici sviluppa proprio l’ibridazione dei linguaggi, individuando nell’accostamento dei materiali, prima ancora che delle forme, l’elemento principale e riconoscibile, emblema di dinamismo e vitalità. Trasparenze e motivi geometrici, arabeschi e decorazioni di diversa natura non sono mai effimeri elementi ma simboli, grezzi e in alcuni casi volutamente incompleti, realizzati spesso in cemento, capaci di trasmettere il senso di una tradizione costruttiva artigiana che diventa anche una sorta di manifesto politico pan-africano.

 

Il Premio Pritzker

Ma sarebbe profondamente sbagliato leggere l’identità attuale dell’architettura africana solo nei termini dell’esotico e del diverso. In Africa sono nati e lavorano professionisti che sono ormai entrati a pieno titolo nello star system internazionale. Basti pensare a Diébédo Francis Kéré e al suo Premio Priztker 2022. Il primo africano premiato, dal 1979, anno di fondazione del riconoscimento. “L’intero corpus di opere di Kéré ci mostra il potere della materialità radicata nel luogo. I suoi edifici, per e con le comunità, sono profondamente radicati nella comunità stesa, nel processo di costruzione, nei materiali, nei programmi e nei caratteri unici. Sono legati al suolo su cui appoggiano e alle persone che siedono dentro di essi. Hanno una presenza senza finzione e un impatto plasmato dalla grazia”, ha scritto la giuria guidata da Alejandro Aravena. Lo stesso Kéré è stato curatore, nei mesi scorsi, della Triennale di Milano che ha avuto molte e intense partecipazioni di paesi africani, a testimonianza del rafforzamento progressivo nel rapporto culturale, sui temi del progetto e del design, tra Italia e Africa.

 

Centri di studio

Tra i numerosi elementi interessanti del quadro architettonico africano c’è il proliferare dei centri studio e di ricerca che, spesso anche più degli stessi progetti, sembrano occasioni per mettere in scena caratteri e identità spesso così difficile da cogliere.

Non è un caso, ad esempio, che la stessa Lokko si sia affermata attraverso l’African Futures Institute, con sede ad Accra, che dirige. Nel board possiamo ritrovare l’Africa “che conta”: un network di professionisti e docenti che, più delle istituzioni tradizionali come le università, sono capaci di costruire ponti tra la realtà locale dei singoli paesi e la scena internazionale. Questa propensione al contatto e alla rappresentazione spesso impatta in maniera importante sugli stessi progetti, diventando occasione di sperimentazione. Uno dei più attesi (inaugurazione prevista entro il 2023) è quello per The Africa Institute, firmato da David Adjaye. Sarà il primo campus di studi sull’Africa e la sua diaspora. È in costruzione, a proposito di paradossi e di rapporti ambigui, negli Emirati Arabi.

 

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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