La finestra sul cortile

La finestra sul cortile

 

La dimensione domestica, i nostri meccanismi neurali e il “bisogno di paesaggio” (urbano e non)

 

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Osservare la vita immobilizzati, all’interno di uno spazio costretto. Questa la sorte che tocca a Jeff, a causa di un incidente. Il signor Jeffries è un fotoreporter, è abituato ad osservare. La sua finestra, affacciata sul mondo esterno, prende così il posto della sua macchina fotografica. Il noto film di Alfred Hitchcock [in copertina, una scena], presentato a Venezia nel 1954, costruisce la sua tessitura narrativa su questa finestra, metafora della pulsione immaginativa, e in fondo, della rappresentazione tout court. Impossibile non pensare a Jeff Jeffries, in un momento in cui la presa reale, o la minaccia, di un nemico invisibile, il virus, nascosto lì fuori in strada, ci tiene confinati dentro le nostre abitazioni.

Tutto è, tranne che un facile accomodamento. La casa, come sappiamo bene, è infatti il luogo dal quale partire per esplorare la vita, utilizzando il nostro corpo, agitandoci in modo agile o maldestro, lì fuori nel mondo. Abitare significa tornare. La condizione attuale, al contrario, ci obbliga a condensare tutte le pratiche che investono la città in gesti e rituali tutti introversi. Quando abitiamo, con una fatica niente affatto uguale, tutti cerchiamo d’imparare ad incastonare i ritmi e gli spazi personali con quelli familiari, o di altri conviventi, nelle abitazioni come nei co-living. Oggi, invece, come topolini in un gigantesco laboratorio, siamo costretti a ricombinare tempi e usi dello spazio in funamboliche sovrapposizioni. Qualcuno vive quest’esperimento come un gioco, o come una sfida. Per la stragrande maggioranza temo non sia così. Oggi misuriamo come il sentimento di solitudine, o di concordia con i compagni di viaggio, è modificato dalla casa. Non era mai accaduto prima. Sarebbe utile raccogliere i racconti delle persone su due elementi: la dimensione della casa e il paesaggio che la finestra introduce nelle vite.

Come una seconda pelle, le pratiche del quotidiano si distendono sullo spazio dell’alloggio, creando invisibili territori. Alcuni di questi sono privati, altri sono comuni. Quando le pratiche private invadono lo spazio comune, o il contrario, e i tempi si sovrappongono, non possono che nascere dei conflitti. L’isolamento acustico delle cuffie non può ovviare a tutto. Le emozioni assumono così sapori anche amari. La scala degli alloggi diventa cruciale: altezze delle camere, numero e dimensione sono più rilevanti di quanto già si creda nel generare l’altalena tra tensione e depressione.

I nostri meccanismi neurali di movimento richiedono lo sviluppo di un’accurata mappatura dello spazio: così, il nostro ippocampo può lavorare dei modelli d’interazione, da spostare nella dimensione implicita, dove il nostro pilota automatico facilita la lettura della quarta di copertina di un libro mentre scendiamo le scale, senza fissare l’attenzione sui gradini che stiamo affrontando, ad esempio. Le irruzioni aliene dentro schemi d’interazione con l’ambiente possono anche essere benvenute, visto che esiste anche un sistema opposto che richiede novelty. Il punto centrale è che queste novità devono produrre un nuovo ri-consolidamento, un nuovo ordine. Da infrangere, magari, dopo poco. Se manca lo spazio per consolidare un nuovo equilibrio, perché bambini, anziani, e genitori devono giocare, riposare e lavorare, in uno, il conflitto produce di norma una tensione che innesca la fuga verso l’esterno. Oggi, però, la fuga reale è impossibile. Ed ecco che ci riappare l’immagine del nostro amico Jeff, con la sua finestra, come un tappeto volante.

Molti esperimenti dimostrano come il paesaggio, che le nostre finestre custodiscono all’interno delle nostre case, influenzi le risposte fisiologiche, emotive e la nostra salute. Frances Kuo e William Sullivan nel 2001, a Chicago, all’interno di un grosso complesso residenziale, su un ampio campione di abitanti, con un test misurarono la fatica mentale. Chi dalla finestra percepiva un paesaggio più ricco, con alberi, manifestava meno fatica mentale. Quei dati uniti a ricerche d’archivio, presso la polizia e l’assistenza sociale, rilevarono che le famiglie con finestra sul cortile alberata registravano meno reati familiari e minor richiesta di sussidi. Nel 1983, Roger Ulrich aveva invece pubblicato una ricerca, nata in un ospedale della Pennsylvania. I dati raccolti in nove anni dimostravano come il recupero da un intervento chirurgico, di solito di nove giorni, si riduceva ad otto per i pazienti che vedevano dalle finestre dell’ospedale il parco, e non la facciata opposta dello stesso edificio: con minor numero di chiamate notturne e una forte riduzione dell’uso di antidolorifici.

Con i suoi pattern naturali, e il movimento dentro il campo visivo, il mondo esterno attiva la nostra immaginazione: nella profondità di campo, le facciate, la piazza, la panchina, la chioma dell’albero, il chiosco, il prato dove stendersi, tutto concorre a innescare simulazioni implicite d’interazioni tra il nostro corpo e le componenti di un paesaggio, che possiamo perciò definire incarnato. Immaginare, per la mente, è come ginnastica per il nostro corpo.

La città dev’esserci, però. Il mondo esterno deve avere la capacità di far partire il cinema dentro di noi. Questo è il punto. Se non coltiviamo meglio il cortile, la finestra resterà serrata, come la nostra immaginazione e, quel che è peggio, come la stessa capacità di ripensare il futuro.

Autore

  • Davide Ruzzon

    Architetto, ha fondato e dirige NAAD Neuroscience Applied to Architectural Design, primo Master internazionale nato sullo stesso tema, all’Università Iuav di Venezia. A Milano ha fondato TUNED, ufficio dedicato all’applicazione delle neuroscienze al progetto architettonico che vanta interventi nel settore dell’housing sociale, delle residenze per anziani, ospedali, aeroporti, logistica, scuole, uffici a co-fondato la nuova rivista «Intertwining», sul rapporto tra scienza, cultura umanistica e architettura, edita da Mimesis International. Ha pubblicato “L’architettura delle differenze” (2013) e “Tuned Architecture” (con Vittorio Gallese, 2016), oltre a saggi e articoli in varie riviste d’architettura. Sempre presso Mimesis è stato recentemente pubblicato il volume “Tuning. Architecture with Humans”

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